Henrik Nordbrandt
Il nostro amore è come Bisanzio

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POETICA

Poeta e saggista danese, Henrik Nordbrandt nasce a Frediksberg il 21 marzo del 1945, città in cui è deceduto il 31 gennaio di quest’anno; è generalmente riconosciuto come uno dei massimi poeti danesi del XX secolo. La sua prima raccolta – intitolata semplicemente Digte (Poesie) – risale al 1966, seguita da una lunga serie di pubblicazioni che annovera anche thrillers,  opere di narrativa, libri per l’infanzia. È stato anche traduttore, in particolare di poeti francesi. Nel 2000 gli è stato conferito il prestigioso premio assegnato dal Consiglio Nordico per la letteratura.

Personaggio insolito – come molti scrittori danesi a causa della loro collocazione ibrida tra l’Europa “continentale” ed il mondo scandinavo più profondo – Norbrandt sfugge ad un incasellamento preciso, per quanto fin dagli inizi sia stato ribattezzato come “il classico Nordbrandt” per il suo incedere classico, nei temi quanto nello stile, musicale e policromo.

I temi prevalenti della sua versificazione sono la morte, la natura, l’amore (tematica anomala per i canoni poetici scandinavi e sicuramente tributaria alla sua lunga frequentazione mediterranea) che viene affrontata con accenti malinconici e sensuali, a cui però si abbina un tono ironico, insolito per il registro classico tradizionale.

Nordbrandt, totalmente refrattario alle mode, ha improntato l’intera sua produzione e ricerca poetica ad una fisionomia coerente che si osserva nella costanza della sua scrittura nel corso del tempo.

Le sue peregrinazioni fra Grecia, Turchia e Spagna, muovono da un distanziamento che egli ha sempre avvertito, già in gioventù, nei confronti della Danimarca e del suo ambiente culturale, letterario e politico; il suo è dunque un viaggio antropologico, che mira alla conoscenza più approfondita di sé e del proprio universo, per giungere successivamente alla riscoperta e riappropriazione del suo cosmo di partenza, ma con un ampliamento di prospettiva.

La sua attrazione per il Mediterraneo è in fondo più la celebrazione di un’assenza, tanto che il suo traduttore italiano Bruno Berni l’ha anche definito “poeta dell’assenza”; egli è ammaliato dal Mediterraneo, ma è consapevole di come questo per lui rimanga un mondo “altro”, ben sapendo di rimanere profondamente danese nell’anima, ma al tempo stesso, non riuscendo ad identificarsi totalmente nella sua estrazione geografica.

La sua opera è costantemente attraversata dalla diffusa sensazione di trovarsi sempre nel luogo e nel momento sbagliato. In una tale condizione di spaesamento il poeta è solo: solo di fronte al mondo che osserva e descrive nelle sue metafore, solo di fronte all’amore, solo nell’inquieto passaggio dall’uno all’altro degli innumerevoli luoghi che popolano i suoi scritti.

La sua traiettoria erratica, come detto, non può che prevedere il ritorno, e difatti nei suoi scritti più recenti, al confronto con il mondo mediterraneo si è affiancata la riscoperta del paesaggio danese, dell’intimità del rapporto con i luoghi d’origine, contestualizzati però in una cornice visuale più ampia, in un continuo alternarsi di partenze e arrivi; in questa cornice, la dimensione della memoria finisce per acquisire via via sempre più importanza, muovendo  dall’idea che solo la poesia possa eternare il momento, l’istante, e lenire la malinconia nel momento in cui lo stesso si dissolve.

 

POESIE

La rosa di Lesbo

 

Ho ricevuto questa rosa da una donna sconosciuta

quando stavo andando in una città sconosciuta.

-E ora che sono stato in città

Ho dormito nei suoi letti, giocato a carte sotto i suoi cipressi

mi sono ubriacato nelle sue taverne

e ho visto la donna andare e venire e venire e andare

non so più dove gettarla via.

 

Ovunque sono stato, aleggia il suo profumo.

E ovunque non sono stato

I suoi petali vizzi giacciono accartocciati nella polvere.

 

Dovunque Andiamo

Dovunque andiamo, arriviamo sempre troppo tardi

a ciò che un tempo siamo partiti per trovare.

E in qualsiasi città ci fermiamo

sono le case cui è troppo tardi per tornare

i giardini in cui è troppo tardi per trascorrere una notte di luna

e le donne che è troppo tardi per amare

a tormentarci con la loro impalpabile presenza.

E qualsiasi strada ci sembri di conoscere

ci porta lontano dai giardini fioriti che cerchiamo

e che diffondono il loro pesante odore nel quartiere.

E a qualsiasi casa torniamo

arriviamo a notte troppo tarda per essere riconosciuti.

E in qualsiasi fiume ci specchiamo

vediamo noi stessi solo dopo aver voltato le spalle.

Lettera

Se un giorno ci venisse in mente di incontrarci

(cosa di cui in fondo dubito)

allora per amor di Dio scegliamo un luogo

in cui nessuno di noi e’ mai stato prima.

Una qualche isola in disparte nell’Egeo

o una spiaggia nei pressi di Alessandria.

Un posto dove i giardini notturni non ci portino

subito a vedere noi stessi

come fantasmi, dove la gente scorgendoci

non finisca subito per pensare

a chi è morto dopo il nostro ultimo incontro

e dove non compariamo nelle loro storie.

Potremmo passare la notte insieme

a bere, a parlare di nulla

e magari remare sul mare al chiaro di luna

e se non ci venisse in mente di annegarci

potremmo separarci prima dell’alba

felici, prima di essere tornati sobri.

– Se dunque esiste un posto così

(cosa di cui come ho detto dubito)

un posto in cui persino certi tardi sprazzi di sole

e i profumi di certi alberi notturni

di tanto in tanto non ci ricordino che abbiamo provato

tutto questo tante volte prima, senza successo.

 

Oppure lasciamo perdere l’idea di incontrarci.

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