Professione Traduttore: Seba Pezzani e Nicola Manuppelli – Intervista
Due visioni a confronto sull'oscuro mestiere di traduttore.

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Nel campo dell’editoria esiste una figura portante  che, dopo decenni di semi oblio, sta iniziando ad avere la visibilità che gli è dovuta: il Traduttore! Sì, scritto con la T maiuscola perché questo è un lavoro importante, oscuro, a cui il lettore il più delle volte non pone attenzione, mentre tutti sappiamo che una buona traduzione riporta quell’opera al valore intrinseco espresso dall’autore nella lingua in cui è stata concepita.

Potendo, ci piacerebbe disporre di un campione significativo di lettori e chiedere loro i nomi dei traduttori degli ultimi dieci romanzi stranieri letti e siamo convinti, se non addirittura certi, che la percentuale di risposte sarebbe di poco superiore a zero.

Oggi, le maggiori piattaforme di vendita online dei libri e così pure i recensori, hanno iniziato ad inserire nella stringa anagrafica del libro, insieme ad Autore, titolo, editore, anche il nome del traduttore. Qualche editore sotto la mini biografia dell’autore, inserisce anche quella del traduttore. Ma è ancora poco.

Ma in che cosa consiste effettivamente il lavoro del traduttore? Come si svolge nel dettaglio? Quali aspetti misurano il valore di una traduzione? Quale è alla fine il sacro fuoco che sta dietro al complesso mestiere del Traduttore? Queste sono alcune domande che possono venire in mente a chi si trova tra le mani un’opera scritta da un autore straniero e tradotta nella nostra lingua. Free Zone (FZ) ha pensato di girarle, unitamente ad altre, in questa intervista parallela a due tra i più stimati traduttori contemporanei, Seba Pezzani (SP) e Nicola Manuppelli (NM).

Dalle loro risposte alle nostre domande risulta evidente che possiedono due approcci al “mestiere” diversi tra loro, questo fatto ci convince di aver fatto centro, infatti, il nostro obiettivo era proprio quello di far emergere, scavando nella grande esperienza di entrambi come traduttori e scrittori, le due diverse interpretazioni del ruolo.

Seba Pezzani-Luca Crovi-James Sallis-Ronald Everett Capps

FZ: Come e quando hai iniziato a fare il traduttore?

SP: L’anno esatto non me lo ricordo, ma direi a fine anni Novanta. Ho iniziato perché il lavoro che facevo – vendere pubblicità sulle Pagine Gialle – non faceva per me e perché ero un ottimo conoscitore della lingua inglese che si piccava di saper anche scrivere bene. Ho pensato, perché non provare a mettere le due cose insieme? Così riesco pure a ritagliarmi il tempo per continuare a coltivare la passione della musica.

NM: I miei inizi li ho scritti nel mio libro Domani è un posto enorme in cui racconto come ho iniziato ad essere un autore, perché tuttora mi considero un autore, uno scrittore e ritengo che poi, alla fine, la traduzione non sia altro che quello, scrivere. Ho iniziato in modo inconsapevole, scrivendo un racconto per un piccolo editore e confrontandomi con lui è saltata fuori la mia passione per la letteratura americana. Allora lui mi ha suggerito di curare un’antologia legata a qualche luogo importante per la letteratura americana. Io ho subito pensato all’Università di Stanford dove sono passati scrittori meravigliosi come Tobias Wolff e Chuck Kinder con i quali mi sono messo in contatto e ho iniziato a scavare nella storia di quel luogo e sugli scrittori che erano passati di lì. Ho contattato quindi altre persone ed ognuno mi dava un piccolo contributo, spesso inedito. Da tutto questo è venuto fuori un grosso libro di testi americani di quasi un migliaio di pagine che ho iniziato a proporre a varie case editrici in quanto chi mi aveva dato l’idea iniziale nel frattempo aveva rinunciato al progetto. Tutte mi hanno risposto che era un progetto forse troppo ambizioso e la cosa mi è dispiaciuta molto perché tanti autori contenuti in quel libro allora erano sconosciuti, ma poi col tempo hanno assunto una certa notorietà anche in Italia. Poi, per fortuna, c’è stato l’incontro con Mattioli 1885, editore con cui lavoro ancora oggi e dove mi trovo benissimo e Paolo Cioni mi ha proposto di lavorare, non sul libro, bensì su qualche autore contenuto nel libro stesso. Ragionando su tutto ciò ho poi scelto un autore che non era contenuto nel libro ma che mi sarebbe piaciuto leggere in italiano. Cioni si è trovato d’accordo e mi ha proposto di tradurlo. Essendo un lavoro completamente nuovo per me ho chiesto un aiuto ad un amico che parla molto bene inglese per tradurlo in coppia. In brevissimo tempo mi sono però reso conto che per lui era un grosso problema in quanto il lavoro della traduzione sta tutto nella scrittura e quindi mi sono ritrovato a dover fare tutto il lavoro da solo con la conoscenza dell’inglese derivante da due anni di liceo e completamente da autodidatta. Andando avanti col lavoro mi sono però reso conto che era più o meno lo stesso meccanismo di una cosa che mi piaceva moltissimo fare al liceo, tradurre letteratura latina. Ho sempre trovato un grande accostamento tra la letteratura latina e quella americana e quindi mi sono detto che potevo fare due cose tra le cinque o sei che mi piacciono più nella vita, cioè leggere e scrivere. Ho quindi preso questo mestiere come un qualcosa che mi permette innanzitutto di leggere cose che mi piacciono, imparare da questi scrittori e poi cimentarmi nella scrittura dei loro libri perché la traduzione è una scrittura autoriale, esattamente come un regista gira un film tratto da un libro, si tratta di due cose diverse ma che hanno molto in comune, la storia, il sentimento. Poi io sono un traduttore anomalo, io traduco le cose che propongo quindi una figura a metà tra un editor e un traduttore e a metà tra un traduttore e uno scrittore. Alla base di tutto c’è una mia ricerca da scrittore di cose che mi piacciono e mi incuriosiscono perché non riuscirei mai a tradurre cose che non vengano da questo schema.

FZ: Come sei diventato una delle voci più autorevoli nel tradurre i maggiori autori americani e inglesi?

SP: Non so se io sia una delle voci più autorevoli, ma certamente ho avuto parecchia fortuna. Talvolta, basta essere nel posto giusto al momento giusto. Sicuramene, l’incontro casuale (e la conseguente amicizia personale) con Jeffery Deaver a un festival, nel 1998, è stato propedeutico a un mio avvicinamento a quel mondo, ma non è stata una cosa semplice. Per niente.

NM: Non so se sono una voce autorevole, non sta sicuramente a me dirlo, e poi autorevole sembra già una cosa che ti invecchia. Io non vengo dal mondo ufficiale della traduzione, io vengo dal mondo dell’antropologia, che ho studiato, e dal mondo della scrittura, che ho fatto da sempre; io mi considero un outsider. Vedo che ci sono gruppi di traduttori che si conoscono, che hanno fatto le stesse esperienze, che hanno frequentato le stesse scuole; io non ho fatto una scuola di traduzione, ho imparato il mestiere facendolo e quindi non so se sono autorevole e posso insegnare qualcosa a qualcuno. Sono però uno di passione e quindi l’unica autorità (termine che comunque non mi piace) che mi piacerebbe avere è quella di riuscire a trasmettere questa mia passione.

Nicola Manuppelli e Robert Ward e Chuck Rosenthal

FZ: E’ importante confrontarsi con l’autore durante una traduzione, studiare e comprendere la sua esperienza di vita, in quale contesto è cresciuto e ha vissuto, oppure è irrilevante?

SP: Direi che sarebbe bello potersi confrontare con l’autore, ma non capita quasi mai. Conoscerne l’esperienza di vita non è necessariamente fondamentale, anche se di certo non guasta. Importantissimo – magari oggi meno essenziale, perché la rete aiuta tanto – è avere un’infarinatura della cultura da cui l’autore proviene. Non mi riferisco unicamente alla cultura popolare americana, ma addirittura ai localismi. Per esempio, un irlandese probabilmente scriverà in modo diverso da un inglese e farà ricorso a modi di dire differenti, ma pure a sensibilità talvolta contrastanti.

NM: Per me è importantissimo conoscere l’autore, se è vivo, oppure conoscerlo attraverso tutto quello che si sa di lui se è morto. A me piace scegliere un autore non dal singolo libro bensì in base alla sua opera. Quando un autore mi incuriosisce leggo tutta la sua opera o quella che riesco a reperire in breve tempo e poi passo alla proposta. Mi è capitato di abbandonare autori che mi incuriosivano dopo aver letto un paio di loro libri in quanto mi sono reso conto che non erano quello che pensavo. Una delle cose che si ripetono, in quanto va di moda essere cinici su qualsiasi argomento, è che se si conosce l’autore di un’opera poi si rimane delusi e che l’opera non è l’autore. Io non sono assolutamente d’accordo e continuo a sostenere che se si capisce bene l’opera, l’opera è l’autore. Io lavoro su libri con cui ho affinità e sono arrivato ad avere questa affinità anche con gli stessi autori, ovviamente con quelli vivi, ma sono sicuro che sarebbe stato lo stesso anche con quelli che non ci sono più. Per me questo è molto importante, l’autore mi deve piacere come persona ed incuriosire dal punto di vista umano

FZ: Puoi scegliere se tradurre un autore o un suo testo, oppure il lavoro non si rifiuta mai?

SP: Io non rifiuto mai. A meno che non sia talmente impegnato su un altro testo da non avere la sensazione di poter svolgere un lavoro all’altezza nei tempi richiesti dall’editore. Molti anni fa, siccome mi era già capitato di prendermi una bella sberla da un paio di editori insoddisfatti delle mie prime traduzioni, rifiutai una proposta che oggi accetterai al volo: tradurre il nuovo romanzo proprio di Jeffery Deaver, che avevo già accompagnato diverse volte in tour. Mi sembrava di non avere il tempo sufficiente per fare un lavoro a prova di qualsiasi critica. In realtà, il traduttore ha costantemente la spada di Damocle della critica e il tempo non basta mai e, dunque, oggi non ci penserei su due volte.

NM: Io scelgo ed è anche vero che il lavoro non si rifiuta mai. C’è anche chi si può permettere di fare questo lavoro come hobby, ma io non posso permettermelo. La mia soluzione è quella di avere più idee possibili su cui lavorare e lavorare tanto. Però per lavorare bene io devo fare qualche cosa che mi piace; è un meccanismo che ho sin dai tempi delle scuole, se non mi diverto mi spengo e divento anche inutile in quello che faccio. Cerco quindi di essere il più acceso possibile.

Nicola Manuppelli e Chuck Kinder
Seba Pezzani e Jeffery Deaver foto di Monica Conserotti

FZ: Cosa non può mancare sulla tua scrivania quando inizi un lavoro?

SP: Sulla mia, certamente una tazza di tè Assam. Senza zucchero e senza latte.

NM: Sulla mia scrivania non può mancare il caffè, poi di fronte alla scrivania ho una foto del set di uno dei mie film preferiti, Gli spostati, che peraltro è comparsa anche sulla mia traduzione de Gli spostati di Miller. Ho sempre una molletta perché lavoro sul cartaceo e quindi blocco la pagina con un paio di mollette, la matita in quanto lavorando sul cartaceo mi serve per segnarmi una parola o qualche cosa; ho anche dei fogli perché prima lavoro a mano e poi sul computer e dell’acqua, anche se è più il caffe dell’acqua. Sulla mia scrivania ho sempre da una parte un libro che sto leggendo per piacere, che è un elemento distraente ma serve anche a ricordarmi che comunque la lettura deve essere prima di tutto un piacere e dall’altra parte ho degli appunti di qualche libro mio su cui sto lavorando come scrittore e può capitare nel corso della traduzione che salti fuori qualche idea interessante che voglio fermare su questi quaderni.

FZ: Leggi il romanzo prima di tradurlo o parti direttamente con la traduzione?

SP: Se posso, non lo leggo mai. Voglio che l’esperienza della traduzione sia analoga a un’esperienza rallentata di lettura. Così sono sempre sulla corda e mi mantengo curioso e intrigato.

NM: Per la modalità di lavoro che ho descritto prima ho sempre già letto prima i romanzi che traduco e la cosa che preferisco è averli letti da un po’. Io ho una memoria molto selettiva per cui magari mi ricordo delle sensazioni o delle frasi del libro, però per esempio mi dimentico i nomi dei personaggi e quindi rileggerli mentre li traduco è una cosa che mi piace molto. Se invece la lettura è molto vicina nel tempo viene a mancare quel gusto di riscoperta.

FZ: Hai mai tradotto in coppia con qualcun altro? Cosa pensi della traduzione in coppia, per te ha senso e se si quando può essere utile farla?

SP: Un paio di volte. Preferisco lavorare da solo. Peraltro, il lavoro un paio di volte l’ho fatto con un amico fraterno e una volta con due traduttrici che non conoscevo e non conosco tuttora. Mi piace poco, ma ci sono sodalizi che funzionano. Due colleghe che vivono insieme si combinano a meraviglia e si confrontano: questo è l’elemento vincente e, dove magari qualcosa sfugge a una, l’altra entra in gioco. Il confronto anche su questioni di stile può giovare.

NM: Io come ho detto prima sono partito facendo questa cosa e non ha avuto senso. Poi dipende dalle modalità di lavoro, io lavoro come autore e come autore ho sempre pensato che fosse impossibile collaborare, però in alcuni casi, come i jazzisti, ti trovi a fare delle session che possono funzionare. Io per esempio ho fatto diversi lavori in coppia con Pasquale Panella a cui una volta ho chiesto aiuto in una traduzione di un romanzo di Ivan Doig in cui c’è un bambino che raccoglie degli appunti che sono versificati, dei giochi di parole per i quali io avevo fatto una traduzione normale; sapevo che lui è un maestro in queste cose e ho fatto in modo che ribaltasse la mia versione e la trasformasse in qualcosa di suo e di originale. È stata un’ospitata all’interno della traduzione ed è stato molto divertente e l’ho raccontato alla fine del libro. Da lì poi sono nate altre cose, io e lui abbiamo scritto un libro assieme, ma è un caso raro. Io affronto la traduzione da solo. Secondo me due persone diverse non possono scegliere la stessa parola.

Nicola Manuppelli e Edith Bruck

FZ: Ti sei mai trovato di fronte ad una frase intraducibile? Se si, come hai agito?

SP: Varie volte. Capita pure che ci siano refusi talmente sottili e ingannevoli da non risultare tali. Bisogna improvvisare e limitare i danni. La traduzione stessa è, per definizione, una limitazione del danno. Il testo originale è inarrivabile. Diffidare dei traduttori che dicono che hanno impreziosito il testo da loro tradotto: una sciocchezza incommentabile. Molti anni fa, quando ancora convivevo con la mia ex-compagna, una ragazza dell’Illinois, mi capitò un romanzo noir – a mio parere orrendo – di un autore dell’Inghilterra del nord che scriveva di treni a vapore (di per sé, argomento ostico) ambientando la sua storia in quel territorio, negli anni Venti, se ricordo bene, e usando modi di dire arcaici e legati a quei luoghi. La rete Internet non era sofisticata come oggi e spessissimo mi sono trovato senza una bussola. Chiedevo alla mia compagna un aiuto e lei mi diceva che non aveva la minima idea di cosa una certa frase o parola significasse. Allora, facevo ricorso a un’amica di Dublino e a una di Londra, che a loro volta non mi erano di aiuto. Insomma, in più di un’occasione ho dovuto improvvisare e inventare di sana pianta.

NM: Credo che tutto sia traducibile e tutto sia intraducibile. Questo perché non credo che il temine traduzione sia un termine preciso quando ci si trova di fronte ad un romanzo. Io credo che il termine preciso sia versione e allora di tutto si può fare una versione. Se si ragiona da scrittore tu stai facendo una versione di un altro libro e quindi in una lingua c’è un modo di dire per tutto. La lingua è un pianoforte con una tastiera infinita e quindi puoi dire qualsiasi cosa. Devi solo trovare il modo di dirla che non è il ripetere le stesse parole ma far rivedere la stessa cosa.

FZ: Quali e come sono i rapporti con le case editrici che ti commissionano il lavoro?

SP: Ho tradotto per molte delle case editrici principali così come per case editrici minori. L’ideale sarebbe intrattenere rapporti cordiali e amichevoli, ma la realtà è che il rapporto è di tipo professionale e non è che ci sia grande senso di gratitudine. In fondo, il traduttore deve essere grato all’editore che gli dà da lavorare, più che il contrario. Va detto che l’editoria, che si picca di nobiltà di scopi, a volte evidenzia meschinità identiche se non peggiori rispetto a quelle di altri settori ritenuti meno elevati. C’è tanta gente che si riempie la bocca della parola cultura e del fine umanamente elevato del lavoro svolto e poi si comporta peggio di un imprenditore metalmeccanico. A me, per fare un esempio, è capitato di essere vittima di mobbing, di essere ostracizzato da un editore (di cui non faccio nome, ma che ha un nome, una tradizione e un’immagine elevatissimi) per il semplice fatto di aver chiesto a un suo autore di punta di partecipare al festival di cui sono direttore artistico, senza interpellare l’ufficio stampa della casa editrice. Insomma, un reato di lesa maestà. Ero l’interprete prediletto dell’editore e avevo tradotto due romanzi per esso e, dall’oggi al domani, non ho più avuto lavoro. Quel che è peggio, l’editore – per bocca dei suoi sottoposti – si è sempre rifiutato di darmi una spiegazione a cui sono tristemente giunto da solo.

NM: Per le case editrici vale quello che ho detto a riguardo degli autori. Mi piace il rapporto umano e quindi tendo a continuare a lavorare con quelle in cui mi trovo bene, come se si fosse in famiglia. Per ora non ho lavorato con grosse case editrici, anzi non sono mai stato cercato da grosse case editrici e quindi non so come potrebbe essere l’ambiente. Sicuramente sarebbe un ambiente diverso e se dovessi percepire freddezza questo mi frenerebbe nel mio lavoro e in più non so se in una grossa casa editrice avrei la stessa libertà di fare quello che faccio, affrontare il lavoro in questo modo, ovvero scegliendo e traducendo quello che voglio. Mi trovo molto bene in quelle in cui sono e me le conservo care perché sono delle piccole nicchie. A me piacciono molto i libri, mi piacciono molto i lettori e mi piacciono molto gli autori, il meccanismo editoriale mi piace un po’ meno e ogni tanto mi sembra poco affine a quello che vende e quindi dove mi trovo bene tendo a restare.

FZ: Se potessi tornare indietro nel tempo cambieresti qualche cosa in qualche tua traduzione pubblicata o una volta finita non ci pensi più?

SP: Cambierei sempre qualcosa. E più tempo passa dalla consegna di un lavoro, meno sono convinto di averlo fatto bene. Credo che sia inevitabile.

NM: No, una vota finita una traduzione non ci penso più. Avendo anche un’attività come lettore e andando in giro a fare reading in qualche incontro sulla letteratura americana, ogni tanto mi ricapita sotto mano un pezzo di traduzione di qualche libro e può capitare che leggendo cambi qualche cosa nella traduzione perché la lettura a voce ha ritmi diversi e quindi può necessitare di parole diverse. Mi è anche capitato di rileggere i miei lavori nei casi di trilogie o di volumi collegati tra loro come per esempio nell’opera di Don Robertson dove i rimandi tra un romanzo e l’altro sono tantissimi. Anche per questo ritengo che sia molto importante leggere l’opera di un autore, proprio perché alla fine si riescono a maneggiare molto meglio anche questi legami.

Seba Pezzani e John Smolens

FZ: Come si è evoluto nel tempo il linguaggio e la scrittura degli autori in particolare americani? Hai tradotto nuovi autori contemporanei, hai notato cambiamenti nello slang che hanno comportato la scoperta di nuovi termini?

SP: In realtà, no. Ci sono nuovi termini come in tutte le lingue, nati soprattutto per soddisfare esigenze legate ai tempi nuovi. Ci sono certamente termini diversi che, spesso, restano tali anche in italiano. Prima ho usato l’espressione mobbing: be’, non si traduce.

NM: Il discorso sull’evoluzione della lingua è un po’ complesso. In generale gli autori su cui lavoro sono degli anni ’50, ’60, ’70, alcuni un po’ più attuali, alcuni viventi; mi è capitato di lavorare su autori tipo Fitzgerald e su altri di quel periodo. L’ambito degli autori su cui per la maggior parte lavoro va dalla fine degli anni ’40 agli anni ’80 e quello che ho notato è che il linguaggio si è semplificato in modo spaventoso e quindi anche gli autori più elaborati e più complessi di oggi sono una passeggiata rispetto ad autori come Doig o Robertson che hanno un magma di parole, di espressioni e di ricchezza linguistica molto più intenso.

FZ: Ti è capitato di effettuare una nuova traduzione di un romanzo già tradotto da uno o addirittura più colleghi in edizioni precedenti? Se si, che tipo di lavoro filologico è stato fatto sul testo? Hai lavorato sul confronto con le precedenti traduzioni? In cosa il tuo lavoro si differenzia da quello dei colleghi che ti hanno preceduto?

SP: Qualche volta. Ma io, volutamente, non guardo le traduzioni che hanno preceduto la mia. Mai! Mi semplificherei la vita e so che molti lo fanno. Io credo che, se non è l’editore a chiederti espressamente quel tipo di lavoro filologico, tradurre con il testo già tradotto a fianco sia poco professionale e persino poco onesto.

NM: Si ho tradotto alcuni libri che avevano avuto traduzioni precedenti, come Il grande Gatsby per esempio, ma non le prendo mai come riferimento perché può essere una distrazione in quanto vorrebbe dire lavorare su tre libri contemporaneamente, quello che che stai traducendo, quello tradotto e quello che stai facendo tu. In ogni caso è una cosa che non mi piace, mi dà persino fastidio perché viene a mancare l’effetto novità. Se il libro è nuovo c’è più attenzione, la stampa gli dà più visibilità, se si tratta di un libro già uscito in passato, cala l’interesse, in Italia quanto meno. In ogni caso non faccio nessun discorso filologico perché come ho già detto la letteratura per me è intrattenimento; io mi leggo quel libro e se mi è piaciuto propongo una mia versione con la quale spero di intrattenere, far divertire e far piangere; il resto per me è estraneo al romanzo, è un romanzo , non un saggio e non devo far vedere quanto sono bravo a capire l’inglese o la storia di una parola inglese; quando traduco un romanzo devo essere un romanziere e quindi devo ragionare come un romanziere. Poi mi sono capitate cose curiose come quando ho scoperto che alcuni libri di MacDonald che ho tradotto erano già stati tradotti per le edizioni dei Gialli Mondadori e che per quella collana erano state fatte delle riduzioni drastiche, cioè libri di 300 pagine erano stati tagliati fino a diventare libri di 100 pagine. In questo caso sono andato a vedere che cosa era successo e devo dire che a volte il confronto diventa divertente perché puoi capire come ha lavorato un altro traduttore e vedi soluzioni che possono essere interessanti. In corso d’opera però il confronto è disturbante.

FZ: Il caso di Elio Vittorini che non parlava inglese ma si faceva fare la traduzione letterale e poi componeva liberamente il romanzo dando senso alle parole messe in fila, cosa ne pensi?

SP: Poteva essere accettabile al tempo. Oggi non lo sarebbe. Detesto i traduttori che pensano di essere autori quando traducono. Sono due lavori diversi e, pur nella limitazione del danno, il traduttore dovrebbe lasciare sempre che sia la voce dell’autore a emergere e tentare nel limite del possibile di essere trasparente e di non sovrapporsi all’autore. È pressoché impossibile farlo in modo assoluto e costante perché il libro passa dall’elaborazione del nostro cervello, ma “provarci” è l’essenza stessa del lavoro del traduttore. Che non è un lavoro artistico e che non è enormemente creativo. Un tempo, non c’erano gli strumenti odierni e, per giunta, pochissime persone in Italia parlavano un inglese di alto livello. Mi è capitato di leggere Il grande Gatsby di F.S. Fitzgerald nella traduzione di Fernanda Pivano senza avere il testo originale a fronte e di aver colto un’infinità di sviste plateali che cambiano il senso stesso di una frase. La Pivano, poveretta, parlava un inglese superiore alla media ma non eccelso e non era in grado di capire certe sfumature linguistiche. E anche lei, come Vittorini e Pavese (per fare qualche esempio), tendeva a prendere troppo campo.

NM: Penso che si possa fare, anzi mi piacerebbe farlo una volta con una lingua che non conosco come per esempio il francese perché uno dei miei autori preferiti è Victor Hugo. Aiutandomi con i vocabolari, con internet, adesso riesco a capire quello che c’è scritto sulla pagina, a decifrarlo e ogni tanto mi viene l’istinto di tradurlo, pur non conoscendo la lingua, di farne una mia versione. Il meccanismo è quello, se tu lo sai fare, puoi farlo anche da una lingua che non conosci in quanto nelle storie c’è un substrato che è al di sotto della lingua e la lingua è solo un modo per catturarle. Se tu capisci le storie, la lingua è solo il secondo passaggio.

Nicola Manuppelli e John Smolens

FZ: Quindi come deve essere secondo te la traduzione? Strettamente letterale, anche se va a discapito di una scrittura più fluida e di pregio, oppure pensi si debba tentare di rendere il testo un buon testo cercando un compromesso che tenda a non alterare il testo dell’autore?

SP: Ripeto, c’è sempre un compromesso, una riduzione del danno. Traduzione letterale non significa fatta coi piedi. Significa rendere in un buon italiano un testo senza inventarsi nulla. Se un autore dice che il cielo è celeste, è celeste, non azzurro.

NM: Io non credo nella precisione della traduzione. C’era un matematico che ha passato tutta la sua vita a studiare matematica e leggi fisiche e ha concluso la sua carriera avvicinandosi alla letteratura e dichiarando che l’esattezza è un falso. Io sono convinto della stessa cosa. I romanzi sono esseri viventi e non conta che siano precisi perché possono diventare esseri viventi noiosi. Conta che siano efficaci, che trasmettano le emozioni che devono trasmettere. Io credo in questo tipo di letteratura e quindi quello che per me conta è ricreare nel lettore le stesse emozioni che ho provato io leggendo quel libro, sono quelle le cose che voglio traghettare.

FZ: Cosa vuol dire per te tradurre un libro?

SP: Mettere da parte il tuo ego e calarti nella testa dell’autore straniero, cercando di trasmettere in un italiano più leggibile possibile le intenzioni e i sentimenti dell’autore.

NM: Per me tradurre un libro è un’avventura. Quando si parte con un progetto nuovo sono entusiasta perché vuol dire che quel libro è andato in porto, che l’editore si è convinto di fare quell’autore a cui tenevo e via dicendo. Faccio tutti libri che mi piacciono quindi lo vivo come un’avventura. Lo vivo anche come un lavoro perché mi permette di fare quello che ho sempre voluto fare, scrivere e guadagnare qualcosa e probabilmente, stante la situazione, si guadagna di più facendo il traduttore che non scrivendo libri propri. Devo dire che sarei molto più contento se potessi campare scrivendo più libri miei e facendo meno traduzioni in quanto ho molte cose in testa che mi piacerebbe portare a termine. In ogni caso tradurre un libro è un piacere e sarebbe ancora un enorme piacere se potesse diventare una cosa che ti permettesse di lavorare a pochi libri l’anno e ti lasciasse il tempo per tutte le altre cose che uno può fare con piacere come andare a nuotare, portare in giro il cane, occuparsi delle piante e tanto altro.

FZ: Come ti accorgi di aver fatto un buon lavoro?

SP: Vado a sensazioni. Ho tradotto circa 150 libri e, dunque, ormai ho il polso della situazione. Io sono soddisfatto se l’editore non mi muove appunti particolari. Però, ripeto, non sono mai del tutto soddisfatto e dovrei poter rileggere la mia traduzione ad almeno due mesi di distanza da quando l’ho fatta. Non succede quasi mai.

NM: Io non so mai se ho fatto un buon lavoro, so solo che se mi sono divertito a farlo allora sono contento. A volte ci sono delle cose, dei piccoli giochi di parole che ti vengono in modo fluido e allora, improvvisamente, sei molto contento mentre capitano, ma dopo un’ora te ne sei già dimenticato. Quando vengo a sapere che le persone si sono appassionate alla storia che ho tradotto sono contento e cerco di trasmettere questa mia contentezza all’autore del libro originale. Quando una storia piace forse vuol dire che a quel punto ho fatto un buon lavoro perché sono riuscito a trasmetterla a qualcuno.

Seba Pezzani e John Landis

FZ: Ritieni che il lavoro del traduttore sia apprezzato e remunerato nel modo giusto? Ora finalmente si tende, anche nelle interviste, a dare spazio e visibilità al traduttore. È solo una nostra sensazione oppure hai riscontri in tal senso?

SP: So che oggi c’è parecchia attenzione per i traduttori. Credo persino eccessiva. Il traduttore è giusto che se ne resti nella sua stanza del PC. Un tempo, gli stessi scrittori restavano anonimi e oggi in alcuni casi sembrano delle rockstar. Non sono un fan degli scrittori rockstar. Non sono nemmeno un fan delle rockstar. Il lavoro del traduttore è mal pagato? Lo è anche quello dell’operaio metalmeccanico. Semmai, il problema vero dei traduttori è avere continuità nel flusso di lavoro.

NM: Ovviamente se mi dessero un milione di Euro per ogni libro tradotto sarei molto più contento. A parte gli scherzi credo che la cultura, soprattutto quella inerente i libri è poco remunerata e non sto parlando di quello che prendo io dagli editori. Mi riferisco al fatto che si pensa sempre che il prezzo di un libro che magari ti intrattiene per un mese sia eccessivo e poi magari è uguale a quello di altre esperienze che si risolvono in mezz’ora. Si ha l’impressione che la scrittura sia diventata nel tempo l’arte dei poveri, o forse lo è sempre stata in quanto gli scrittori sono sempre stati un po’ i giullari di corte. Ci sono mestieri più semplici e che donano meno alle persone e che sono più remunerati, quindi in questo senso credo che questa professione non sia ben remunerata. Per quanto riguarda il ruolo di traduttore ci sono due scuole, quelli molto tecnici e quelli che affrontano il lavoro come faccio io e in questo caso penso che sia mal compreso. I primi scrittori latini erano di fatto dei traduttori ma erano considerati scrittori a tutto tondo; Fabrizio De André cantava traducendo pezzi di Brassens, Dylan o Leonard Cohen ma era considerato un cantautore a tutto tondo; non vedo quindi perché un traduttore non debba essere considerato uno scrittore. Parlando della mia esperienza personale ed essendo conosciuto più come traduttore che come scrittore si pensa che io sia un traduttore prestato alla scrittura. Magari se uno fa qualsiasi altro mestiere affine all’editoria, tipo il copertinista o il libraio, si pensa che sia più autorizzato a scrivere quando invece il traduttore, insieme allo scrittore, è nel mondo editoriale in assoluto, la persona che ha più rapporto con la scrittura. Il traduttore è uno scrittore e questa cosa non si è chiarita in modo adeguato in quanto si pensa che scrittore e traduttore siano due cose diverse. Questo pensiero è una stupidaggine assoluta; se ti domandi che cosa fa un traduttore, la risposta è che la sua azione è scrivere, quindi è uno scrittore.

FZ: Tu sei anche un apprezzato scrittore. Quanto tradurre le parole di altri ti fa venire voglia di scrivere?

SP: La voglia di scrivere non manca mai. In realtà, ce l’avevo prima di mettermi a fare il traduttore e anche questo ha contribuito a fare di me un traduttore. Poi, però, mi sono accorto, come detto, che sono due cose diverse. Il mio problema è che sono abbastanza pigro e che, forse anche perché faccio musica, mi manca l’energia per accostarmi alla forma romanzo.

NM: Tradurre parole di altri mi fa sempre venir voglia di scrivere anche perché tutto nasce sempre dalla mia ricerca come autore. Poi ci sono molte altre cose che mi fanno venir voglia di scrivere, una fotografia, vedere delle persone per strada, leggere un nome su un cartello, sono migliaia gli spunti che ti portano alla scrittura. L’unico nemico è il tempo, che tra l’altro è il dettato della scrittura, ma è anche quello che a volte ti viene a mancare quando vorresti scrivere tutte queste storie. Mi è capitato a volte di sviluppare un modo di scrittura dove abbozzo le cose più avanti nel periodo che voglio dire perché la velocità nello scrivere delle mie mani è più lenta rispetto alla velocità di quello che vorrei dire.

FZ: Ti ricordi quale è stato il primo libro che hai tradotto?

SP: Non sono certo al cento per cento, ma direi Into the forest (Nella foresta) di Jean Hegland, commissionatomi da Guanda attraverso un’amica e mai uscito per Guanda, che però me ne pagò la traduzione. Il romanzo è uscito per Fandango nel 2019 con la traduzione di qualcun altro.

NM: Me lo ricordo benissimo. È stato Non abitiamo più qui di Andre Dubus. Andre Dubus è stato un uomo a cui devo tanto. Grazie a lui mi sono deciso ad andare in giro a fare reading, grazie a lui ho fatto le prime traduzioni, da lui ho imparato tanto come scrittore. Sarò sempre grato ad Andre Dubus.

Nicola Manuppelli e Bret Easton Ellis

FZ: Quale autore vorresti tradurre a tutti i costi e qual è quello che hai amato di più tradurre?

SP: È una domanda molto impegnativa. Mi piace tradurre chiunque. Mi è piaciuto tradurre tanti autori, ma mi sono divertito molto a tradurre due dei tre romanzi disponibili in italiano dell’indiano Vikas Swarup, usciti per Guanda.

NM: Per quanto riguarda gli americani uno dei mie sogni è sempre stato quello di poter tradurre Raymond Chandler. Mi piacerebbe anche tradurre Scott Turow o Stephen King, autori con cui sento di avere qualche affinità. Però l’autore che più mi piacerebbe tradurre in assoluto è Victor Hugo; mi piacerebbe tradurre I miserabili. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda devo dire che ho amato tanti autori che ho tradotto, ma per la sua storia personale, per quanto è affine a quello che cerco io nella scrittura, l’autore che ho amato e che amo più tradurre è Don Robertson. Robertson è veramente uno degli autori più sottovalutati della storia della letteratura e quando parto a tradurre un suo libro mi sento felice come un bambino, mi diverto e mi commuovo. Tradurlo è una meraviglia.

FZ: Quali sono i cinque libri che ti porteresti su un’isola deserta?

SP: I tre moschettieri di Alexandre Dumas; La valle dell’Eden di John Steinbeck; Il signore di Ballantrae di Robert Louis Stevenson; Germinal di Emile Zola; Il buio oltre la siepe di Harper Lee. Di certo me ne sono scordato qualcuno.

NM: Quella dei cinque libri è una domanda terribile. Io a cuore mi porterei dei libri che mi danno un po’ tutto e che mi hanno segnato, quindi mi porterei I cigni selvatici a Coole di William Butler Yeats perché il giorno dopo averlo letto ho cominciato a scrivere e continuo a rileggerlo, sono delle poesie splendide. Mi porterei I miserabili di Victor Hugo perché credo che sia il mio romanzo preferito e perché dentro c’è di tutto e quindi su un’isola deserta potrei ritrovarci tutto quello che mi manca. Mi porterei Il grande Gatsby di Fitzgerald perché è un altro dei libri che mi ha segnato e lui è uno dei miei autori preferiti in assoluto con cui sento di avere una grande affinità umana. Sicuramente mi porterei Alla mercé di una brutale corrente, quattro volumi di Henry Roth, che per me è il più grande Roth della letteratura americana. Libro di formazione e meraviglioso. Mi ricordo che quando lessi il secondo volume lo lanciai contro il muro perché stavo leggendo esattamente la cosa che avrei voluto scrivere io. A questo punto ne manca solo uno ed è tremendo perché mi piacerebbe portare qualcosa di Stephen King, tipo 22.11.63, però io ho una grande passione per la letteratura latina e a questo punto sarei lacerato in quanto ci sono due libri che mi piacciono in modo devastante, l’Eneide di Virgilio e De rerum natura di Lucrezio. Sentendomi un epicureo tenderei a portarmi Lucrezio ma nell’opera di Virgilio c’è una grande umanità e una grande passione e ci sono tante cose di una bellezza tale che forse su un’isola deserta, visto che non saprei cosa fare e non mi piace pescare, mi converrebbe proprio avere l’Eneide di Virgilio.

 

Seba Pezzani foto di Monica Conserotti

Seba Pezzani – Biografia: è nato a Fidenza, il 21/07/64. È da quasi trent’anni attivo come cantante e chitarrista, nonché autore. Laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Bologna, da sempre è appassionato di letteratura anglo-americana. Affianca all’attività musicale quella di traduttore e interprete free-lance dall’inglese. Fra gli artisti al cui fianco ha operato, figurano Joe R. Lansdale, Jeffery Deaver, Anne Perry, Tom Franklin, John Harvey, Ruth Rendell, Jeffrey Archer. Ha collaborato e collabora attivamente con la pagina culturale de l’Unità e con quella de Il Giornale e con il portale di informazione Globalist.it. È Stato interprete in numerosi festival nazionali. Ha collaborato con la trasmissione Tutti i colori del giallo condotta da Luca Crovi su Rai 2. È attivo sul fronte musicale con i RAB4, band di rock delle radici americane, che tra le varie esperienza vanta due tour negli USA, oltre a diverse incursioni a Londra, al Cairo e in Germania. È direttore artistico del festival internazionale musicale-letterario Dal Mississippi al Po di Piacenza. Potete leggere l’elenco di tutti i suoi lavori qui: Lavori di Seba Pezzani

 

Nicola Manuppelli

Nicola Manuppelli – Biografia: Scrittore, editor, traduttore e sceneggiatore, nato a Vizzolo Predabissi, Milano nel 1977. Ha pubblicato romanzi, memoir, biografie cinematografiche oltre a racconti brevi e lunghi in diverse antologie e curato sceneggiature e spettacoli teatrali. Ha collaborato, fra le altre, con le riviste D di Repubblica, Numèro, Lampoon, Icon, Musica Jazz, Tuttolibri e i magazine americani Xavier Review, Chicago Quarterly Review, Catamaran. Il suo romanzo “Roma” (Miraggi 2018) è stato candidato al Premio Strega nel 2019. Potete leggere l’elenco di tutti i suoi lavori qui: Lavori di Nicola Manuppelli

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