Myron Elkins – Factories, farms and amphetamines
2023, Low Country Sound / Elektra Records

Myron Elkins - Factories, farms and amphetamines (2023) cover
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Rock n’roll suonato da una country band oppure country music suonata da una band di rock n’roll? Già Steve Earle negli anni ’80 si lamentava di non riuscire a sfondare per essere considerato troppo rock dal pubblico country e troppo country dal pubblico rock. Accuse riciclate più di recente anche per certi lavori di Will Hoge.

Se è vero che Muddy Waters svelava un segreto di pulcinella quando cantava “il blues ha avuto un figlio e lo chiamano rock’n’roll”, è importante di tanto in tanto ricordare il contributo pressoché paritario, anche se a tratti meno evidente, che nella genesi del genere che tanto amiamo ha avuto la country music. “Factories, farms and amphetamines” è uno di quei dischi che ce lo ricorda piacevolmente. E rende difficilissimo rispondere alla domanda d’apertura.

Il titolo, una volta tanto, riassume alla perfezione la mescola che compone i pneumatici che fanno girare forte questo disco di esordio del ventunenne proveniente da un angolo sperduto del Michigan, addirittura prodotto niente meno che dal padrino della migliore musica country & roll degli ultimi 15 anni, Dave Cobb.

Fattorie, fabbriche e anfetamine. Le periferie del rock n’ roll, le campagne del country, il metabolismo accelerato dalle anfetamine. Insomma, un po’ George Jones, un po’ ZZ Top, un po’ Waylon Jennings un po’ Marcus King. Senza mai dimenticare i Rolling Stones e il soul più sporco di casa a Muscle Shoals, Alabama.

Ventuno anni e una voce da uomo navigato con una lunga e intima frequentazione con alcool e tabacco, e che peraltro ricorda abbastanza da vicino quella di un gigante come Chris Stapleton, che vira verso Bobby “Blue” Bland quando risulta un po’ più impastata.

Il suono è quello “giusto” delle produzioni roots di Dave Cobb. Sarebbe stato facile fare una copia carbone del suono di dischi pluripremiati come quelli di Stapleton, ma non è così che lavora Cobb: il suono è quello dell’artista, sfrondato qualunque cosa non sia funzionale al messaggio e incoerente con il profilo artistico. Giusto come riferimento, rispetto a Stapleton qui abbiamo sonorità ancora più essenziali, vintage, asciutte e volutamente meno a fuoco, ma più elettriche e aggressive.

Il disco si apre con la caracollante Sugartooth, un outlaw country suonato tra Merle Haggard e i Crazy Horse di Neil Young, ma senza dimenticare Billy Joe Shaver. Segue la title track, inizio rock’n’roll con un riff che ricorda il buon vecchio Otis Redding e la sua Hard to handle, per poi virare su territori più country rock. La mezza ballata Hands to myself, torna in bilico con il soul, sorretta da un basso saltellante che ricorda molto da vicino anche certa proto-discomusic dei primi anni ’70, e con un bell’organo hammond a impreziosire il ritornello. Ancora più rock la seguente Mr. Breadwinner, che – questa sì – pare uscita da un disco del 1970, con i suoi riverberi, i suoi cori e i suoi riff. Con Wrong side of the river torna l’outlaw country più tradizionale, con tanto di sferragliante acustica. Si cambiano territori con il riff, la distorsione e gli effetti che sorreggono Nashville money, senza farle perdere tiro e mordente: non si dica che ci sono lati degli anni’70 che non sono stati richiamati nelle sonorità del disco: qui ci sono anche il campanaccio e il flanger.

Old trauma sembra richiamare anche i Lynyrd Skynyrd, nei momenti in cui il loro rock incrociava il country, omaggiando le radici più vere della musica delle terre del sud. Machine è ZZ Top al 100%, mentre il disco si chiude come è iniziato, con un country saltellante dove la chitarra acustica strappa un po’ di spazio alle elettriche, e il basso slabbra come non succede quasi più dal 1972.

Nel complesso sembra quasi un miracolo: un disco tra country e rock che non è infarcito di (noiosissime, diciamocelo!) ballate bucolico/pastorali, dove anche nelle atmosfere più riflessive ed i testi più cupi (certo non è facile decifrare sempre la pronuncia impastata e distorta di Elkins) sono le chitarre elettriche a guidare i giochi.

Forse, in effetti, è più country suonato da una rock band con i suoni di una outlaw country band? Ma importa davvero poco, perché ci troviamo di fronte ad un disco piacevolissimo da ascoltare e riascoltare più e più volte, di cui assaporare le composizioni, che scorrono lisce per le vie di un songwriting sapiente, senza intoppi né deragliamenti che fanno storcere il naso. Un felicissimo matrimonio tra scrittura di qualità (a dispetto della giovanissima età) e produzione matura, tra rispetto dei canoni tramandati dai padri e spiccata personalità. Un giovane che porta avanti la tradizione sulle proprie gambe e con la propria voce e le proprie storie, citando e omaggiando ma mai copiando. E l’attenzione degli addetti ai lavori dimostra non tanto le capacità di marketing dell’Elektra, quanto che esiste un pubblico che aspetta questi dischi e li accoglie a braccia aperte, pronto per il prossimo ventunenne che con il proprio stile e la propria identità porta avanti una vecchia e gloriosa tradizione che non ne vuole sapere di lasciare al passato la propria forza e la propria qualità.

 

TRACKLIST:

01. Sugartooth
02. Factories, Farms & Amphetamines
03. Hands To Myself
04. Mr. Breadwinner
05. Wrong Side Of The River
06. Ball and Chain
07. Nashville Money
08. Old Trauma
09. Machine
10. Good Time Girl

 

 

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