Miroslav Krleža
Le ballate di un ribelle

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Poetica

 

Miroslav Krleža è unanimemente considerato il più importante autore della letteratura croata del XX sec. ed una delle voci poetiche e letterarie principali nell’ambito della letteratura jugoslava tutta.

La sua sterminata produzione comprende poesie, opere teatrali, racconti, romanzi, saggi storici e critico-letterari ed opere polemistiche. In realtà, all’interno di questo quadro intellettuale particolarmente fertile, la componente poetica occupa una parte ristretta, ma pur tuttavia, il capolavoro assoluto della carriera di Krleža, è proprio un poema epico, vale a dire le Ballate di Petrica Kerempuh, che appaiono per la prima volta nel 1936.

Miroslav Krleža nasce a Zagabria il 7 luglio 1893 da una famiglia della piccola borghesia croata: come successo a molti esponenti della propria generazione nella Mittel e nell’Est Europa, la sua stessa storia personale riflette i vari rivolgimenti della storia europea del XX Sec.

Krleža nasce dunque nella Croazia asburgica, posta sotto l’amministrazione di Budapest, vivendo appieno la temperie dei nazionalismi interni alle singole componenti etniche di cui l’esteso territorio dell’impero è costituito. La formazione del giovane Miroslav, è in particolare plasmata dall’incontro con il comunismo (in particolare per il fascino esercitato su di lui dalla figura di Lenin) e dall’ideologia panslavista, base per l’espansione imperialistica dell’Urss e che vive la sua espressione più “pura” (in quanto spontaneamente nata dall’idea di solidarietà tra i popoli di ceppo slavo) proprio nella Jugoslavia, di cui Krleža sarà un propugnatore per tutta l’arco della sua vita e della sua opera.  Infatti, ancora giovane, decide di arruolarsi volontario, durante le guerre balcaniche, essendo ancora cittadino dell’impero asburgico, nelle file dell’esercito serbo, proprio in nome dell’ideologia panslavista.

Evidentemente, l’avvio della sua attività letteraria, non può non risentire di tale afflato e retroterra politico ed infatti comincia subito a sviluppare uno spiccato interesse per i temi connessi ai due filoni principali della sua ispirazione giovanile, il panslavismo ed il comunismo; va però precisato come rispetto a quest’ultimo manterrà sempre un spiccata indipendenza di giudizio – a partire dall’avversione per la politica di Stalin – nonostante la Jugoslavia aderisca a sua volta al blocco socialista, pur con i tutti i distinguo legati all’esperienza socialista jugoslava ed alla “via di Tito al comunismo”.

C’è del resto un fil rouge che accompagna l’intero pensiero politico ed intellettuale di Krleža, legato alla repulsione verso qualsiasi forma di potere autoritario, che accomuna la sua opposizione all’impero asburgico prima ed alle dittature fascista e comunista nella declinazione staliniana, poi.

Manterrà sempre una costante vigilanza critica anche nei confronti dell’esperienza titina (pur essendo amico personale del maresciallo Tito), sposando entusiasticamente, proprio per la ragione appena esposta, la coniugazione jugoslava del modello comunista, ma diffidando dell’apparato di potere che gradualmente va saldandosi attorno al leader jugoslavo. Rimarrà invece sempre fedele alla causa jugoslava, sentendola per tutta la sua vita come la propria identità nazionale e culturale, attitudine del resto manifestata fin dall’inizio della sua parabola creativa, quando sceglie di esprimersi in lingua serba (alla di stregua di altri grandi scrittori non serbi della Slavia meridionale dell’epoca, a partire dal premio nobel Ivo Andrić) come tributo al ruolo di guida riconosciuta al regno di Serbia nell’assestamento della futura unione degli stati slavi del sud, che si concretizza dopo il primo conflitto mondiale con la costituzione del regno di Serbi, Croati e Sloveni, antesignano della Jugoslavia.

L’opera di Krleža  è particolarmente prolifica, annoverando globalmente, fra le sue varie sfere d’attività circa 80 volumi, includendo anche pubblicazioni come voci enciclopediche, corrispondenze su vari argomenti, diari di viaggio, ecc; al di là della sua grande capacità di scrittura e ricchezza di contenuti ed ispirazione, la sua risorsa primaria è nel fatto di poter attingere ad una formazione legata ad artisti e intellettuali  tra i maggiori della storia europea, come si evince nella sue opere teatrali con i riferimenti ad Ibsen e Strindberg, nei rimandi filosofici alle riflessioni di Nietzsche, nell’influenza esercitata nella sua prosa e nella sua poesia da autori come Kraus, Rilke,  Proust o Dostoevskij (pur nutrendo una certa diffidenza nello scrittore russo, ds lui considerato un reazionario colluso con il potere), frutto del fatto di essere stato un grande lettore oltre che uno scrittore fecondo, in grado di leggere opere originali di diversi autori nelle loro lingue madri, grazie ad una notevole padronanza delle lingue straniere, il che è tipico peraltro di molti cittadini dell’impero asburgico, specie nei territori più marcatamente multietnici, come la Croazia appunto.

Krleža comincia a comporre poesie in età giovanile e le sue prime raccolte appaiono già nel 1917: si tratta precisamente di Pan e Tri Simfonije (Tre sinfonie), seguite a ruota dall’antologia in tre volumi Pijesme (Poesie) e dalla silloge Lirika, ancora del 1919. Altre sue pubblicazioni poetiche sono Knjiga Pjesama (Libro di poesie) del 1931 e Pjesme u tmini (Poesie nell’oscurità, opera tra l’altro interessante per la sua multiforme modalità espressiva, ondeggiante fra poesia, poema in prosa, memorie diaristiche e formule narrative), edita nel 1937, preceduta di un anno dalla prima edizione del suo capolavoro assoluto, le Ballate di Petrica Kerempuh (Balade Petrice Kerempuha).

 

In effetti, parlare del Krleža poeta, significa parlare prevalentemente delle Ballate, opera assolutamente geniale e difficilmente catalogabile, colta e plebea insieme, comica e tragica al tempo stesso, poema epico, ma anche raccolta lirica, opera poetica, ma capace di ritrarre con straordinarie efficacia e competenza la storia e l’antropologia di un popolo – caratteristica pressoché estintasi nella poetica di gran parte d’Europa nel XX Sec. sopravvivendo soprattutto nella tradizione di area slava – parlando altresì della contemporaneità del suo tempo e risultando profetico rispetto a tanti risvolti successivi della storia europea.

Proprio l’impossibilità di affrontare unitariamente una retrospettiva sull’opera poetica di Krleža, per la difficoltà di accostare le altre sue raccolte poetiche alle Ballate, sia appunto per l’assoluta originalità che contraddistingue il suo capolavoro, sia per l’oggettiva discrepanza qualitativa riscontrabile fra le prime e le seconde, sia infine per l’indisponibilità di traduzioni italiane delle altre sue pubblicazioni poetiche, ci conduce a soffermarci in quest’articolo solo sulle Ballate di Petrica Kerempuh, come elemento distintivo ed compendiante l’intera parabola del Krleža poeta.

Petrica Kerempuh è un vero e proprio caso originale nell’ambito della storia letteraria europea del XX sec. un poema che ritrae spietatamente la storia croata, ma intesa come osservatorio privilegiato da cui spaziare sull’intera Europa: non a caso quell’area è sempre stata cruciale nei destini della storia dell’intero continente, in quanto crocevia di popoli ed intrecci storico-politici; e non a caso Krleža si sofferma soprattutto sull’epoca asburgica, accentuando la funzione narrativa assunta dalla Croazia come paradigma di un mondo più ampio, scelto in un momento storico emblematico anche per spiegare i vari rivolgimenti successivi.

Krleža indaga e smaschera con straordinaria lucidità i meccanismi, i soprusi, le angherie del potere, ed anzi approfondendoli dall’angolo visuale delle realtà locali della Croazia rurale – dove l’espressione del potere è spesso impersonificato dai suoi livelli più ottusi e meschini – la denuncia di Krleža emerge ancor più nitidamente rappresentativa della condizione  universale del conflitto fra il potere ed il popolo, apparendo quest’ultimo nel poema di Krleža, vilipeso da secoli di sottomissione e ridotto ad una condizione sospesa fra l’apatia della miseria ed improvvisi scatti e fiammate rivoluzionarie, che spesso accendono la storia d’Europa.

Krleža affida la voce dei subalterni al protagonista del suo poema, un chierico vagante che rappresenta un personaggio dissacrante e che avvicina le immagini della scrittura del poeta croato in questa sua cavalcata storico-epica a quella ad esempio di un François Villon (che peraltro Petrica ricorda già proprio per la sua figura di chierico vagante) per  l’ “affilatezza” della sua lingua poetica e per l’immediatezza e sovvertimento dal basso della sua visione poetica,  o di un Cecco Angiolieri per i tratti irriverenti e comici del suo registro espressivo.

L’autore affida così il lamento del popolo croato (ma per suo tramite, come detto, dei ceti subalterni per lo meno dell’intero continente) al suo protagonista, che vaga per i villaggi e per i quartieri popolari delle cittadine della sua Croazia, in un itinerario nella geografia, ma anche nel tempo (i cui limiti Petrica valica , incarnando una figura a suo modo messianica, nel suo ruolo di redentore delle plebi afflitte) raccogliendo le pulsioni e le istanze dei contadini e di tutti i derelitti, legate alle loro miserie, al proprio avvilimento ed al tempo stesso alla loro voglia di riscatto ed emancipazione da un potere soverchiante, divulgandole nel suo vagare per mezzo della sua cetra che,  perpetuando un’antica analogia tra poesia e musica, è la trasposizione della stessa penna del poeta, brandita contro il potere nelle sue varie declinazioni.

Bisogna precisare come non sia assolutamente facile rapportarsi ad un’opera come le Ballate di Petrica Kerempuh e ciò per varie ragioni. Innanzitutto, l’operazione costruita da Krleža è paragonabile alla composizione dei grandi poemi epici del passato, in grado di restituire alla poesia la sua antica prerogativa di ricettacolo globale del sapere, in cui abbinare all’ “umano sentire”, la capacità di saper condensare il sapere umanistico nella sua interezza – in fondo attraverso la sua semplice qualità antica di farsi testimone di storie – in cui condensare tutto uno sfondo, storico, politico, antropologico, culturale in generale, rispetto al quale la poesia esercita il ruolo di una sorta centrale energetica sotterranea da cui muovono le dinamiche delle vite individuali e dell’esistenza poetica stessa.

La figura di Petrica Kerempuh, può in fondo essere accostata a quella dei grandi protagonisti delle opere epiche del passato a cominciare (naturalmente mutatis mutandis) dall’Odissea e come in queste, anche la comprensione delle Ballate necessita un approccio che consideri l’approfondimento di aspetti storico-culturali specifici, trascendendo gli aspetti puramente poetici, ma approcciando l’opera come una vera costruzione socio-antropologica.

In effetti, la narrazione delle Ballate si snoda dal ‘500 – secolo delle prima jacqueries contadine della storia croata, fino all’inizio del ‘900 – fino cioè agli ultimi istanti della storia del dominio asburgico su quei territori – periodo chiave, come accennato, per poter comprendere l’evoluzione politico-sociale novecentesca della Croazia, del resto dei territori dell’impero austriaco e dell’Europa tutta. L’intera trama dell’opera è infarcita di riferimenti precisi a vari momenti storici della vita croata, frutto della grande preparazione storica dell’autore e della ricchezza di fonti a sua disposizione; al tempo stesso, le ballate offrono uno sguardo “dal basso”, frutto a sua volta delle competenze in materia etnologica di Krleža, profondo conoscitore della cultura popolare e contadina della sua terra. L’ironia ribelle e il diffuso sarcasmo delle trentaquattro ballate sono segnate da un forte realismo plebeo fin dal nome del protagonista, che è in realtà un soprannome, traducibile in italiano con “Pierino budello di porco”, per la sua voracità nel mangiare.

Un’altra difficoltà particolare nell’approcciare il capolavoro di Krleža è senz’altro la lingua adoperata dallo scrittore croato: d’altro canto, il registro linguistico prescelto da Krleža è un vero preziosismo, un’invenzione linguistica, così come il miscuglio di temi e spunti è rivoluzionario dal punto di vista contenutistico. Se già la circolazione di traduzioni di opere croate non è così agevole, approcciarsi al Petrica risulta ancor più ostico anche per i potenziali traduttori stessi, appunto per la formula espressiva prescelta da Krleža, che non adopera la lingua nazionale croata, ma una delle sue varianti dialettali, il kajkavo (il croato comprende tre varianti dialettali: il kajkavo, appunto, il čakavo e lo štokavo; come accadeva con le varianti dell’antico francese nella fase di formazione delle lingue romanze, in cui si distinguevano i due grandi raggruppamenti della langue d’oc e langue d’oil, denominati in base al termine che nelle rispettive aree geografiche indicava l’avverbio affermativo sì, nel caso dei dialetti croati essi si distinguono in base ai termini che indicano il pronome interrogativo che cosa? o che?, cioè appunto ka, ča e što).

La scelta linguistica di Krleža non è casuale, in quanto fin dall’inizio (come abbiamo già visto) il suo intento non è ripercorrere sic et simpliciter la storia croata, ma affrontare e

rileggere la storia dal punto di vista degli ultimi, in una visione più attinente alla dinamica del conflitto di classe di matrice comunista e di conseguenza per sua stessa natura scisso da qualsiasi coinvolgimento nazionalista. In tale ottica, la storia croata finisce in realtà per diventare paradigmatica della storia europea tutta, anche grazie alla sua posizione geografica di cerniera fra aree culturali diverse ed alla confluenza multietnica tipica dei territori dell‘impero asburgico. Evidentemente, in tale contesto, lo strumento linguistico adoperato non può che riflettere quest’approccio “meta-nazionale” e così nella formulazione di Krleža il kajkavo, (parlato nella Croazia , nord-occidentale e centro-settentrionale, ma anche dalle minoranze linguistiche croate presenti in Ungheria al confine con l’Austria, in Romania e Slovacchia) finisce per diventare una koinè poiché che nel suo substrato accoglie anche termini di origine latina, tedesca, magiara, turca, italiana, racchiudendo quindi già in sé la complessità del mosaico etnico dell’impero asburgico e quindi, secondo il proposito di Krleža, il valore paradigmatico a livello europeo dell’esperienza storica del popolo croato. A questa caratteristica già in sé peculiare della lingua kajkava, Krleža vi aggiunge diverse sue trovate ed espedienti linguistici, che ampliano ancor più la sua libertà creativa rispetto all’uso della lingua nazionale e che rendono il modello linguistico prescelto, un vero e proprio gramelot; un’intuizione non molto dissimile da quella operata circa cinquant’anni dopo in campo musicale da Fabrizio De Andrè per Creuza de mä con l’adozione del genovese come lingua unificante i vari idiomi del Mediterraneo, ma di fatto, proprio come accaduto anche per l’album di De Andrè, di difficile comprensione anche per i parlanti contemporanei la lingua nazionale croata. Lo stesso autore ci ricorda frequentemente come a suo avviso l’intero corpus delle ballate, altro non sia che “una rivolta plebea pronunciata in una lingua barocca”. Siamo di fronte, in definitiva, ad una lingua che, coerentemente all’intero progetto del poema, mescola “alto” e popolare, un’invenzione dotta, ma in grado di rivelare appieno l’anima della cultura popolare.

Il poema risulta originale anche nella sua struttura, imperniata su 34 componimenti di varia lunghezza, che vanno dalla redazione di versi di breve estensione, fino al poemetto vero e proprio ed ogni capitolo si sofferma su di un anno particolare nel corso dei cinque secoli di storia considerati.

Le Ballate, costituiscono a tutt’oggi uno degli esempi più alti ed emblematici di rappresentazione artistica della cultura popolare e di lettura popolare della storia, attraverso un continuo rimando fra cultura dotta e popolare (e non sono estranee in questo senso influenze dall’opera letteraria di Rabelais o spunti tratti dalle raffigurazioni visive della cultura popolare proposte da Bruegel, Callot, Holbein o Goya) da che rendono l’opera particolarmente affascinante, così come è affascinante per il fatto di consentire la riappropriazione alla poesia dell’ermeneutica storica.

Il personaggio di Petrica Kerempuh, riprende la figura di Till Eulenspiegel, un personaggio del folclore del nord della Germania e dei Paesi Bassi, che ritrae l’antica figura trobadorica del chierico vagante sfaccendato, crapulone, cinico, ma non esente anche da tratti patetici: tutte caratteristiche, del resto, rintracciabili già nel nome stesso del protagonista. Al tempo stesso, Petrica si rivela anche uno straordinario interprete della cultura e delle condizioni dei ceti popolari, raccogliendone i lamenti e tramutandolo con il suo linguaggio aggressivo, ma al contempo corrosivo, in denuncia esplicita, ma anche in derisione nei confronti delle figure del potere, che Petrica riesce a deformare grazie ai suoi affondi di straordinaria capacità comico-lirica, sempre accompagnato dalla sua mandola. C’è anche però, nella scrittura del poema, un tono estatico ed insieme grottesco, tellurico, ritmico, che fa di questi testi delle vere e proprie ballate, oltre a far emergere un surrealismo lirico che esercita quasi un effetto di amplificazione delle vicende narrate, rendendole quasi astoriche.

Inevitabilmente, l’opera si connota al tempo stesso come un viaggio non solo storico, ma anche antropologico (la scienza che non a caso ha nel senso del movimento, nello spazio e nel tempo la sua essenza), in quanto viaggio verso il basso, verso i margini, decentramento funzionale, come sempre nel procedimento antropologico, per meglio poter inquadrare il centro, il fuoco dell’analisi, cioè la storia europea tutta.

In fondo questo spirito autenticamente popolare, ma non populista, che denota l’opera, può anche essere letto – nell’ottica della contemporaneità dell’epoca della sua realizzazione – come un tentativo da parte dell’autore, di fronte all’affermarsi dell’oppressione staliniana, di recuperare, seppure attraverso una formula ed un linguaggio arcaici, l’autenticità del progetto leninista, distanziandosi però da qualsivoglia connotazione politica grazie alla genuina anarchia che connota lo sfondo delle Ballate.

Questa considerazione, ci conduce ad un punto nodale della lettura dell’opera del grande scrittore croato e cioè l’identificazione possibile fra sé ed il protagonista del suo capolavoro, proiettando senza soluzione di continuità, il percorso del chierico Petrica Kerempuh lungo i crinali della storia croata, direttamente alla contemporaneità di Krleža.

Comunista eterodosso, antimilitarista convinto, sostenitore dell’idea jugoslava, Krleža si contrappone alle ingerenze politico-ideologiche, in particolare di provenienza sovietica, nel mondo della cultura e dell’arte, con il risultato che, al di là di varie censure subite, si arriva, nel 1937 (quindi proprio all’indomani della pubblicazione delle Ballate) alla decretazione della sua espulsione dal Partito comunista jugoslavo, sancita da Tito in persona. Tuttavia, la sua indipendenza intellettuale e di giudizio, gli permette di ricoprire un ruolo fondamentale nella Jugoslavia che rompe i rapporti con il Cominform e fonda il movimento dei “non allineati” nel quale lo stesso maresciallo Tito lo innalza a personaggio pubblico e poeta “jugoslavo” per eccellenza, affidandogli un decisivo ruolo pubblico nella costruzione dell’identità culturale della Repubblica federale. Ciò nonostante, i rapporti fra Krleža e la Lega dei Comunisti rimarrano sempre conflittuali, fino all’adesione, nel 1967, alla “Dichiarazione sulla denominazione della lingua croata”, la quale contesta l’idea che il croato fosse una pura lingua regionale, mettendo in discussione la validità stessa della definizione di lingua “serbocroata”. È però sempre opportuno ricordare l’anima profondamente jugoslavista di Krleža, rispetto alla quale questo slancio nei confronti della lingua e dell’identità croata, pur essendo la sua area di provenienza, è da intendere come espressione di un puro anelito di contestazione libertaria, in opposizione ad un certo inasprimento delle libertà promosso dal regime dalla seconda metà degli anni ’60, senza alcuna relazione con idee di nazionalismo croato. Tra l’altro Krleža muore nel 1981, proprio all’indomani della scomparsa di Tito, per cui, per sua fortuna, non avrà tempo di assistere all’escalation dei nazionalismi nei vari territori della ex repubblica federale, lasciando però proprio per questo alla Jugoslavia in declino un patrimonio culturale difficile da maneggiare.

La difficoltà di ingabbiare Krleža in schemi politici definiti (che è poi la prerogativa del vero intellettuale) continua infatti a segnarne la sorte anche successivamente alla frammentazione della ex Jugoslavia, periodo di alterne fortune per la memoria della sua opera dato che, soprattutto nella fase iniziale, di forte irreggimentazione ideologica, il suo jugoslavismo ne sancisce in patria una sorta di damnatio memoriae, nonostante l’unanime definizione riservatagli di più grande scrittore in lingua croata della storia.

Del resto le ideologie sono spesso il limes dell’umana intelligenza e non a caso Krleža  se n’è sempre tenuto lontano in tutta la sua carriera, mantenendo sempre una grande indipendenza di giudizio intellettuale ed irridendo anzi le rigidità dell’approccio culturale ideologico, per cui la sua autorevolezza di pensiero non avrebbe potuto in a permettere trovare conciliazione con i fermenti ideologici dei nazionalismi post comunisti che peraltro avranno come esito un’altra sciagurata guerra, questa volta civile, fra le più sanguinose della storia; per cui le Ballate di Petrica Kerempuh, nella loro denuncia della guerra e della tirannia del potere, rappresentano anche un esecrazione delle ideologie e delle barbarie che hanno determinato le devastazioni che hanno funestato il XX Sec. includendo idealmente anche le stesse guerre jugoslave di fine ‘900, con le loro insensatezza e barbarie.

Di fronte alle esagitazioni nazionalistiche delle guerre jugoslave, probabilmente Krleža avrebbe probabilmente replicato ancora una volta con la sua solita corrosività tranchant e spiazzante, ricordandoci come in fondo “serbi e croati siano un unico pezzo di sterco, tagliato in due dal carro delle storia”.

È del tutto evidente quindi, anche da queste considerazioni finali, l’assoluta attualità del messaggio krležiano, in un contesto europeo e mondiale che sembra non aver assolutamente tratto alcun insegnamento dalla sua storia, riflettendo ancora oggi il contrasto ritratto da Krleža, tra le varie emanazioni del potere e le popolazioni, che al netto di sollevazioni improvvise (i cui esiti di lungo termine però, non sempre coincidono con i disegni originari) continuano ad essere vittime dei piani dei primi, attraverso il flagello delle guerre; ed il meccanismo di conduzione delle guerre da parte degli stati continua ad essere sempre lo stesso, legato all’esaltazione nazionalistica come strumento di compattamento del consenso (come stiamo vedendo anche da un anno a questa parte in Ucraina), laddove invece la stessa formula caustica utilizzata Krleža a proposito delle presunte differenze fra serbi e croati, può tranquillamente essere applicata ad ogni teoria discriminante fra qualsiasi stato.

 

POESIE

 Petrica i galženjaki

 Na galgama tri galženjaka,

tri tata, tri obešenjaka,

pod njimi čarni potepuh

tamburu svira Kerempuh.

 

Smude, cafute, kaj vam je teca

zežgala lice kakti pereca,

glas posluhnète kajkavskog jazbeca!

 

Se je to vražnja zamotavka,

pod tabanom goruča žerjavka,

a hudodelnika raščetverenje

najsakodnevnejše je nam pripečenje.

Zgublenje glavno, strašna kaštiga,

človek se denes friga kak liga.

 

Si sfruštani i zbulani kaj šmerčete bez nosa,

bistričkih bogcov procesija bosa,

čifutski signum: zlamenje žuto,

rastergla nas kobila je barzo kruto.

V grofovske gajbe ruži lancov vaših tanec,

a Petrica, žalosni pismoznanec,

kaj nikaj spametnog zmislil nesem

neg tožnu ovu kerempuhovsku pesem,

pod galgami kaj ju stambural jesem.

 

Tak je na svetu da za najvekšeg suca

smert se s kosum vre okolo smuca.

Ne bu ni on lajal navek: “signare –

cum ferro” pekel bogčije kosti stare.

Jemput bu vre negdo “signare cum ferro”

ftargnul i pretargnul to gospocko pero!

Zapamtite kaj vam je Kerempuh rekel:

Hudi bu biškupa odnesel vu pekel.

I Šatan bu spekel grofe i prebendare,

gornice i činža prepune ormare!

Kervavo nam je telo Veronikin Robec,

vre svira v trombentu tovalruš kmet

Matijaš Gobec.

 

Galge, šibe, sohe, žgalnje,

žveplene vruče skolke,

prangeri i klade

i smerti druge tolke,

pak v turnu i v gajbi kervave parade,

za kmetsku glavu tanec bez pomenjše gnade,

ni v peklu još ni bilo tak smolave balade

da ne bi gladnuš bogec ki od glada krade

na kraju konca zvitezil svoje jade.

 

Se naše rane, solze, kervave kaštige,

zdroblena kolena, prebite kotrige,

v lobanji luknja, na galgama još brige,

se to su ipak dragom bogu fige,

gda biškupi kak klafrave papige

pod galgama se mole za blagoslov verige.

 

Petrica e gli impiccati (estratto)

Sulla forca, tre impiccati,

tre ladri, tre appesi,

sotto di loro un nero vagabondo

suona la sua mandola Kerempuh.

 

Puttane, bagasce, alle quali il marchio

ha bruciato la faccia come una ciambella,

ascoltate la voce dell’astuto cantore di lingua kajkava!

 

È tutto un diabolico groviglio,

sotto i piedi la brace ardente,

e lo squartamento del malfattore.

è il nostro più quotidiano avvenimento.

Il taglio della testa, castigo tremendo,

oggi l’uomo vien punito come un’anatra, friggendolo.

 

Tutti frustati e confusi, perché tirate su col naso,

se non l’avete più,

scalza processione dei poveri di Bistrica,

segno giudaico: segno giallo,

la cavalla ci ha squarciato con furia selvaggia.

Nelle gabbie del conte rintrona la danza delle vostre catene,

ed io Petrica, afflitto letterato,

che non ho mai pensato una cosa sensata

se non questa mesta canzone del mio repertorio,

che ho appena eseguito sotto la forca.

 

Così va il mondo che anche per il giudice più grande

la morte già si aggira con la sua falce.

Neppure lui potrà sempre latrare e: “Signare

cum ferro”, arrostire le vecchie ossa dei servi.

 

Una buona volta qualcuno interromperà quel “signare

cum ferro”e porrà fine a questa penna padronale!

Ho sbuffato e ho tirato la piuma di quella signora!

Tieni a mente ciò che ti ha detto Kerempuh:

il diavolo si porterà il vescovo all’inferno,

e Satana arrostirà conti e fruitori di prebende,

i loro armadi pieni di decime e tasse pagate!

Il nostro corpo è insanguinato come il fazzoletto di Veronika,

già da fiato alle trombe il compagno servo della gleba

Matijaš Gobec.

 

Forche, fruste, patiboli, roghi,

sulfuree, calde casse e portantine,

colonne infami, ceppi di supplizio

e tante altre morti,

cortei insanguinati di gente in gabbia,

proiettili destinati alle teste dei servi, senz’ombra di pietà,

neppure all’inferno c’è ancora stata una simile ballata

per cui uno straccione affamato, che ruba dalla fame

alla fine dei conti non abbia la meglio sui propri guai.

 

Tutte le nostre piaghe, le lacrime, le cruente punizioni,

le ginocchia maciullate, le membra fracassate,

i crani perforati, le sofferenze anche sulla forca,

sono pur sempre inezie agli occhi del buon Dio,

se i vescovi come loquaci pappagalli

pregano sotto il patibolo per la benedizione della catena.

 

Gumbelijum roža fino diši

 Gumbelijum roža

fino diši,

na galgam se bumo

zibali si.

 

Hej, haj, prišel je kraj,

nigdar več nebu dišal nam maj!

 

Zavijal celu noč stekli je pes,

celu noč pilko nam hoblal je les.

 

Z scalinom nam buju prelejali grob,

v pesje gnojnišče zlopatali drob.

 

Gumbelijum beli mertvečki diši,

z galgah se nigdo povernul ni.

 

Hej, haj, nek cvate maj,

nigdar nas v pekel taj

nebu nazaj.

 

Il mughetto rosa ha un profumo delicato

Il mughetto rosa

ha un profumo delicato,

sulla forca dondoleremo tutti

lentamente.

 

Ehi, ehi, è arrivata la fine,

per noi maggio non avrà più il suo profumo!

 

Latrava per tutta la notte quel cane furioso,

per tutta la notte il becchino ha lavorato di pialla.

 

Ci innaffieranno la tomba di piscio,

e sulle viscere nostre getteranno concime di cane a palate.

 

Il mughetto bianco profuma di morte,

nessuno è tornato vivo dalla forca.

 

Ehi, ahi, fiorisca pur maggio,

mai da quell’inferno

faremo ritorno.

 

 

Lamentacija o štibri

Falen budi Jezuš Kristuš,

lubim Jim rukice, Poglaviti,

sluga sem pokoren,

kaj smem k Njimi priti?

 

Sem došel, bogme, štibru platiti!

Graščicu gradsku Grajaninu.

Prebendaru pak mletvinu.

Gospodinu podimčinu,

pohižninu, ognješčinu.

Magistratu maltarinu,

tovar, tlaku, govedšinu.

Velečasnom presvalščinu,

Kapelanu martinščinu.

Cimtorijumu osvalščinu,

rokovnicu, žirovinu.

Varoškem Sucu sajamninu,

maltarinu, kerčmarinu.

Kaptolomu brodarinu, tičarinu,

a bogme i dervarinu!

Dominalnem Gospodinu

hižni ranjčik: škuda cvancig,

urbarijum arenjdalski:

vagan jajca, sedem janjci!

Kontraktušu terezjanjskem

tri šonkice, rizling lanjski.

Zemalskome Gospodinu

pašarinu, ciglarinu,

lugarinu, ribarinu,

lovne cucke, tersovinu.

Za činž Grofu desetinu,

harač zlatni: tri forinte.

A Pisaru gusku, forint,

za tri kapi čarne tinte.

Za vuzemski liter vina

sedem grošov pajcovine.

Orehov vagan za aldomaš

vekovečne odvetčine:

Repudiare, Aspernari,

kmetska tikva se pokvari.

 

Porkolabi i drabanti,

kastelani i vahtari,

kaputaši i mežnari,

dacari i kapetani,

porez, dače i procente

kmet dužen je još od lani.

 

Prebendari, kancelisti,

kaprali Kompanije Christi,

kancelari, generali,

veliki i mali krali,

Sardanapali i fiškali,

klajnja Jim se mužek mali.

Kušuje Jim vočje stope,

kervave kaple ž njega škrope.

 

Lubim Jim rukice najponiznejše, Presvetli,

štibra nas jaše kak Hudi na metli.

 

Sluga sem pokoren, Prepoglaviti,

kaj morem ž Njimi v kancelarije biti?

 

Prosim Ih kak Boga, Preuzvišeni,

s tim činžum za živeti, bogibogme, više ni!

 

Naj zemeju na znanje, Velemožni,

da mi sme lojalni, pobožni i podložni!

 

Kistijant Jim želim, Gospon Grof,

se moje je Njihovo: moj žitek i imetek,

moj lov i moj krov!

 

Pozdravlen budi Jezuš, Gospon Velečasni,

z luknom sme letos opet malo kasni.

 

Naj samo zapišeju to, Veleučeni:

bili sme globleni, zaperti i tučeni!

 

Gladni smo kruha, Magnifice Domine,

za cipovom belim nam curiju skomine.

 

Oprost od činža Ih prosime, Uzoriti,

od Vuzma nijemput nigdar sme ne bili siti!

 

Zakaj opet, lubleni Illustrissime,

na špangi kak klobase visime?

 

Zakaj čepime v gajbi, dragi meštre?

Čkomite: sad nas buju deli na benečke kleštre!

 

Po nami se Njihovo Gospoctvo

vre dugo špancira,

za kmeta ne neg peklenog kristira.

 

Oni su z nami jako hudi, dragi Gospon Špan!

Na Markovem Placu sedi kervavi Biškup Ban!

 

Kmeta su Dožu kmeti rastergli

ze zubi kak cucki.

Naj nam rastolmače: kaj je i to bile lucki?

 

Lamento per il tributo (Estratto)

Sia lodato Gesù Cristo,

bacio le mani, Illustrissimo,

Sono servo Suo umilissimo,

posso accedere alla Sua presenza?

 

Sono venuto, Dio mio, a pagare il tributo!

La tassa urbana all’Esattore.

Al prebendiere, la tassa sul macinato,

al Signore quella sui camini,

sulla casa, il focatico.

Al magistrato il dazio

sul carico, sul lavoro, sulle bestie.

Al Monsignore la tassa della chiesa,

al Cappellano quella di San Martino.

Al Cintorio quella per Sant’ Osvaldo,

per San Rocco, quella per le ghiande.

Al giudice di città quella del mercato,

del materiale da costruzione, quella della taverna.

Al Capitolo quella della barca, dell’uccellagione,

e naturalmente anche quella sulla legna!

Al Signor Feudatario

Il tribuno sulla casa: venti scudi,

le modalità di pagamento:

uno staio di uova, sette agnelli!

Per il contratto teresiano

tre prosciutti, il riesling dell’anno scorso.

Al Signore del territorio

Il tributo per il pascolo, per i mattoni

per il guardiaboschi, per la pesca,

per i cani da caccia, per i vigneti.

Per l’affitto la decima al Conte,

il tributo d’oro: tre fiorini.

E al notaio un’oca, un fiorino,

per tre gocce di inchiostro nero.

Per un litro di vino di Pasqua

sette centesimi di pagamento del plateatico.

Uno staio di noci per il vino dei contratti,

eterne parcelle:

Repudiare, Aspernari,

la povera zucca del servo si smarrisce.

 

Carnefici e trabanti,

castellani e guardiani,

borghesi e sacrestani,

dazieri e capitani,

tasse, tributi e percentuali

il servo della gleba è indebitato già dall’anno scorso.

 

Fruitori di prebende, scrivani,

caporali della Compagnia di Cristo,

cancellieri, generali,

grandi e piccoli sovrani,

Sardanapali e avvocati,

s’inchina a voi il piccolo contadino.

Vi bacia le lupesche piante dei piedi,

gocce di sangue sprizzano dal suo corpo.

 

Bacio le umilissimamente, Illustrissimi,

il tribuno ci opprime come il diavolo cavalca sulla scopa.

 

Sono servo umilissimo, Signor Superiore,

posso entrare nel Suo ufficio?

 

La prego come Dio, Eccellenza,

con questi interessi, Dio mio, non si riesce a vivere!

 

Voglia prendere in considerazione, Magnifico,

che possiamo essere leali, devoti e sottomessi!

 

Voglio baciarLe le mani, Signor Conte,

tutto ciò che è mio è Suo: la mia ricchezza e il podere,

la mia selvaggina e il mio tetto!

 

Sia lodato Gesù Cristo, Signor Reverendo,

Siamo di nuovo un po’ in ritardo

col pagamento dell’estate scorsa.

 

La prego di volerlo annotare, Chiarissimo:

siamo stati multati, rinchiusi e picchiati!

 

Siamo affamati di pane, Magnifice Domine,

sentiamo l’acquolina in bocca davanti al pane bianco.

 

Le chiediamo l’esonero dagli interessi, Eminenza,

da Pasqua non siamo mai stati sazi!

 

Perché di nuovo, amato Illustrissimo,

siamo appesi alla corda come salsicce?

 

Perché siamo a giacere in gabbia, Lei che sa?

Tace: adesso ci metteranno alle tenaglie veneziane!

 

Su di noi, Sua Signoria

Già da tempo passeggia,

per il servo non c’è che il clistere infernale.

 

Lei con noi è proprio malvagio, caro signor Prefetto!

Sulla Piazza di San Marco siede il sanguinario Vescovo – Conte!

 

Altri servi hanno dilaniato il servo Doža[1]

con i denti come cani.

Ci spieghi per favore: è un trattamento umano?

 

Scherzo

A.D. 1590

Dudaša i jopicu

V dezđljivoj markloj noči

Martinska guska zestala je

“Kam grete, pajdaši

Povečte me!”

 

“Bakuša Boga iščemo, draga

Jen lagev da žganja otpre nam!

Pajdašica, pojdi ga iskati z nam!”

 

V bertiju su zašli gdi riba čverči

V ponjve moruna se v olju kadi

Vragomlek trava kak badnjak diši

 

Tu tolvaj jen morski je vino pil

Kositreni bilikum po guske razlil

Martinska guska je tolvaja

S krelutmi fajtnemi zmotala

Z biškupom masno sklopotala

 

Dudaš je jopice jen kalež žganice

Da zbatri jopicu nalil v požirak

Jen frater pavlinec, z čubom kak mlinec

Kaj čkomel do teg kak mutlast mutak

Je počel popevat kak sam hudi vrag

 

“V dežđljivoj markloj noči Ovidijuša je dobro čitati

Kod tega vraga vračtvo za vuloge pitati

Podagram tollere nescit medicina

Ak te žiga v kostmi, popij pehar vina

Kaj vino je još navek najbolša medicina!”

 

 

Scherzo

 A.D. 1590

Un’oca di quelle di San Martino

in una buia notte piovosa

s’imbatté in un suonatore di cornamusa ed una scimmia:

“Dove andate, compagni

portatemi con voi!”

 

“Cerchiamo il Dio Bacco, cara

perché ci apra una botte di acquavite!

Troia, vieni a trovarlo con noi!”

 

Entrarono in una bettola dove friggeva il pesce,

e uno storione si affumicava nell’olio della padella,

si sentiva il profumo di piante aromatiche

come nel ceppo di Natale.

 

C’era un pirata che beveva vino,

e versò la tazza di benvenuto addosso all’oca.

L’oca di San Martino avvolse

il pirata con le sue ali bagnate,

e lo percosse con le piume del culo.

 

Lo zampognaio per far coraggio alla scimmia

Le versò nell’esofago un calice di acquavite,

un frate paolino, che aveva un ceffo come un macinino,

e fino ad allora era rimasto del tutto muto,

si mise a cantare come fosse il maligno in persona.

 

“Nella buia notte piovosa è bene leggere Ovidio,

nei testi di questo stregone cercare rimedio ai reumatismi:

Podagram tollere nescit medicina

Se senti delle fitte alle ossa, beviti una coppa di vino,

Perché il vino resta sempre la medicina migliore!”

 

Sanoborska

Tri fertala na cušpajz

Celu noč je brundal bajs

Stepihlep scufanih gač

Ptel se je kak peti ketač

 

Posudiček je zgubiček

A peharček pak fkanijček

Slanine nigdar nebu s pesa

Niti povratka iz lesa

 

Prasica je znesla jajce

Kak roktavo kokodajce

Babi v ruke procval ključ

Z guskom pečenom iduč

 

 

Zablejala se želva v jajce

Zakukuriknul mali pajcek

Lešnak je skočil kak fačuk

Na gradu je zapeval čuk

 

Poesia di Sanobor

Manca poco a mezzogiorno

qualcuno ha suonato la piva per tutta la notte.

Un vagabondo dalle braghe sbrindellate

girava alla tonda come la quinta ruota.

 

Prestare è come perdere,

la coppa è un inganno.

Lardo dal cane non ne può uscire

e dalla tomba non si può tornare.

 

La scrofa ha fatto l’uovo

sentila come grugnisce facendo coccodè.

Alla comare è fiorita una chiave tra le mani

Mentre stava andando con un’oca arrostita.

 

La tartaruga s’è incantata a guardare l’uovo,

un porcellino fa chicchirichì.

Un cadavere è saltato su come un puledro,

sopra la Città si sente il verso della civetta.

 

Krava ana orehu

Krava na orehu

Cirkva v mehu

Pozoj v zobunu

Kak kusa v čunu

 

Na pričesti štriga

V žepu figa

Muha v vreloj kaši

Roda na maši

 

Za sto let ni mesa

Ni čavla, ni lesa

Pijme ga, škvorci

Mudri Sanoborci!

 

La vacca sul noce

La vacca sul noce

la chiesa nel mantice,

il drago nel panciotto,

come una cagna in barca.

 

La strega alla comunione,

la mano in tasca col segno delle fiche.

La mosca nella polenta fumante,

la cicogna alla messa.

 

Fra cent’anni non ci saranno più né carne,

né chiodi, né cassa da morto.

E allora beviamoci su, stornelli,

di Samobor saggi donzelli!

 

Stric-vujc

Stric-vujc, stric-vujc

Idu babe sa zornice

Veter ščiple nos i lice

Muž bu dobil zanoftice

Zakaj nema rukavice?

 

Sanjinec lešči

Iskri se i blišče

Zajec mamu išče

Sneg škriple i blešči

 

Stric-vujc, stric-vujc

Zaružil je tujc

Na čarna vrata hižna

Starinska alamižna

Vu ime Baltazara

Vu ime čarnega cara

Egiptovskeg Gašpara

Udelite krajcara!

 

Badnjak za pečjum

Vuzem na drvocepu

Kuhamo sarmu, klobase

I kiselu repu

 

Stric-vujc, šic-mic

Kraj pisane pečenke i devenic

 

Al biti gol, kak goli bažolek

Pod jaslicam, kadi su oslek i volek

Jedina peč, kak marhenjska sapa

I biti bos kak bosa capa

A nemat niš neg bogečkog ščapa

Gledat na nebu mlaji serp

Kak gnjili canjek zamotanjek

Od osmujenih cunj i kerp

I biti kakti samec pes

Bez domovine, bez penez

A na te laje saki pes

Pandur za petom, Herodes

Biti fačuk i smujin sin

Tega je preklel sam Gospodin!

Temu je sam Belzebub i stric i vujc

Stric-vujc

 

Striz-vujz[2]

Striz-vujz, striz-vujz.

Le comari tornano dalla messa dell’alba

Il vento pizzica il naso e la faccia

Il contadino si prenderà la pipita,

Perché non porta i guanti?

 

Splende la traccia dello slittino,

sprizza scintille e luccica.

Il leprotto cerca la mamma,

La neve scricchiola e abbaglia.

 

Striz-vujz, striz-vujz

si sente un forestiero

che bussa alla nera porta di casa,

chiede l’antica offerta:

in nome di Baldassarre,

in nome del re moro,

l’egiziano Gaspare,

donategli un centesimo di fiorino!

 

La vigilia di Natale davanti alla stufa,

Pasqua a spaccar legna.

Cuciniamo gli involtini di cavolo, le salsicce

e la rapa in agro.

 

Striz-vujz, gattaccio va’ via,

davanti alla porchetta arrostita e agli insaccati.

 

Ma essere nudo, come il fagiolo,

nel presepe, quando l’asino e il bue

sotto l’unica stufa, come bestiame dall’alito fumante,

ed essere scalzo come una zampa scoperta,

e non avere niente se non il bastone del povero,

guardare in cielo la falce della luna nuova,

come un fradicio involto di stracci,

fatto di strofinacci bruciacchiati,

ed essere come un cane senza padrone

senza patria, senza denaro

e ti abbaia dietro ogni cane,

le guardie alle costole, come quelle di Erode,

Essere un bastardo e un figlio di nessuno,

maledetto persino dal Signore!

Quando ti restano solo Belzebù

e quel ripetuto striz-vujz,

striz-vujz.

 

Verbovanka

Konjic erarski,

konjiček, ždrebec, ždrepček,

saki dan solda, klobas,

saki dan topli hlepček.

V nedelu pak cafute,

v petek turski svetek,

harcuvanja banskog to ti je početek.

 

Al kad dojdu Gospodin Grof

Italo Hermengildo Izolani,

hahar nacifrani, kak vre jesu bani,

generali, venecjáni,

pak kad dojdu gladni dani,

gda se ne zna ni kaj ni kam,

niti ki kam, si bi sikam,

rascufani turski dani,

gda se ne zna ki kam kani,

sisečki dani, zbombardani,

prestreljani, razdrapani,

zabadave buš se križal

Jezuševoj slatkoj rani.

Spoznala ti bude tikva,

za sold Švaba da je hotel,

bogečki sold, da te fkani.

 

Gigerl biti vu sametu, septuh imet mezopani,

“camatato deaurato”, “cimbaloto, pokay poto”.

Al kad dojdu Gospodin Grof naš general Izolani,

kopito lizal išibrani ti buš, mulec zverbuvani.

S kremenjačom flintom, ti kanonsko meso,

spekel se buš v blatu, kakti jež pod Pleso,

z mošnjom i s cekini, z spreluknjano keso.

 

Na čeladi fakla, pancér, karabinjér,

ti, mulec božji, štimaš da buš oficér!

Mala Maša takšnih je metulov zežgala pet jezer,

General Praunšperger, hudi krobatožder,

se Turopolce je poklal, stekli pes i zver,

kak bogatuš, kavaler,

vrnul se je v Belveder.

 

Konjic, konjiček, ždrebec, ždrepček,

saki dan hleba, saki dan hlepček.

Za verbuvanku ranjčik, bogečki imetek,

čarnoga grudanjka pijani početek.

 

Opera di convincimento

Un cavallino dell’erario,

un bel cavallo, uno stallone, stalloncino,

la paga tutti i giorni, una salsiccia,

ogni giorno un caldo panino,

la domenica, poi si va a puttane,

venerdì, si capisce, è festa turca,

e questo è l’inizio della carriera di soldato.

 

Ma quando arriverà il Signor Conte

Italo Ermenegildo Isolani,

barba matricolata, come poi son tutti i bani,

i generali, i veneziani,

e quando arriveranno i giorni della fame,

quando non si sa né come, né dove,

né cosa fare, e tutti vorrebbero uscirne in qualche modo,

i giorni “stracciati” dalla presenza dei turchi,

quando non si sa davvero dove si vorrebbe andare,

i giorni di Sisak, dei bombardamenti,

delle stragi e delle fucilazioni,

allora non ti serve più farti il segno della croce

di fronte alle cinque piaghe di Gesù.

La tua zucca si renderà conto,

che il tedesco ti voleva fregare

per un soldo, per un misero soldino.

 

Fare il bellimbusto e gongolarsi in divisa,

vestito di panni eleganti dai nomi ricercati,

acquistati ad ogni costo.

Ma quando arriverà il Signor Conte generale Isolani

ti toccherà leccargli gli zoccoli del cavallo,

bastardo di uno sciocco.

Con l’archibugio a pietra focaia, tu carne da cannone,

ti brucerai nel fango,

come il porcospino nel paese di Pleso,

rimettendoci i coglioni e gli zecchini, dalla sacca forata.

 

Il cimiero sull’elmo, la corazza come un carabiniere,

tu, povero bastardetto, ti credi di diventare ufficiale!

All’inizio dell’autunno se son bruciate cinquemila,

di farfalline notturne come te,

il generale Praunšperger, tremendo divoratore

di carne croata, ha sterminato tutti gli abitanti di Turopolje,

carne rabbioso e feroce,

e ricco e riverito

se n’è tornato nel suo Belvedere viennese.

 

Cavallino, cavalluccio, stallone e stalloncino,

pane tutti i giorni, ogni giorno un panino.

Un fiorino per convincerti, guadagno da poveri

ebbro inizio dell’ultimo giorno di vita.

 

Harcuvanka

Harceri harcuju,

henkari hoheruju,

ostrugari hatmanima

alamanke kuju.

 

Kolduši, lazaroni, tolvaji, latroni,

za halavanjom harca sa se banda goni.

Pod Petrinjom vezda smudiju kanoni.

 

Krabonosi, larfonosci, zaškrabani krabulniki,

bargamina, bumbačina, azardum i lumpačina,

Ahileši slavni pri peharu vina,

Marsovi kaprali kraj ognja komina.

V pekve prasetina, v gubcu teletina,

patuljčeci kak bažulki,

tak lumpaju ti perdulki,

zavrčki, patulki,

valonski smerdulki,

švapski pobedniki,

žolduši i plačeniki,

dežđevnjaki, niščeniki,

kaj ih natiravlu kak guske na piki

kurdistanjski koplaniki.

 

Tak zglediju naši hofmejstri, sojuzniki,

v kardinalske kikli carski poslaniki,

kaj glavu bi slavonsku najrajše na piki

v Inšpruk fkrali, prokleti coparniki.

 

Canzone di guerra

I soldati combattono,

i carnefici versano brutalmente il sangue,

gli artigiani fabbricano

le spade ai capitani.

 

Mendicanti, lazzaroni, briganti, ladroni,

tutta la banda va dietro al frastuono dei soldati.

Sotto Petrinja, rintronano sempre i cannoni.

 

Portatori di maschere, volti coperti, celati, camuffati,

pergamene, cotonine, giochi d’azzardo e chiassate,

tutti Achilli gloriosi davanti ad una coppa di vino,

allievi di Marte davanti al fuoco del camino.

nanerottoli alti come fagioli,

così impazzano questi omiciattoli,

embrioni, gnomi,

valloni puzzoni,

tedeschi vincitori,

mercenari al soldo di tutti,

salamandre, nullità umane,

domati, come oche allo spiedo,

solo dei lancieri curdistani

 

Così appaiono i nostri dignitari, alleati,

messi imperiali in abiti di cardinali,

che preferirebbero infilzare alle picche

le teste degli slavoni,

a Innsbruck maledetti stregoni.

 

V megli

Kervava megla v megli karvi,

kadaver v blatu,

v lobanji čarvi.

 

Zgorete cirkve, kervavi sveci,

dim, jogenj, megla, v megli mertveci.

 

V megli, v daljini, plač pesji, kmica,

bistrički bogec, bistrička bogica.

 

Tenja se vleče gluhe vlačuge,

dim, megla, v megli kopito kuge.

Galopjera kak stekla na mercini pastuhu,

v meglu, v kmicu, v daljinu gluhu.

 

Na štaglu, v seni fajtnega sena,

kak tenja tenje je šmugnula sena.

Škornje v blatu, sena još jena.

Megla. Tišina. Vremena meglena.

 

“Psst, dečki, čkomete, cito, citissime,

kirije eleison, na propele visime!”

 

“Pod baltu se bane i špane i kapetane

excellentissime i eminentissime!”

 

“Če se ne zdignemo, nigdar se ne vskrisime!”

 

“Tri bednja praha, plomba, puriflami,

Gurkfelderi dojti rekli su z nami!”

 

“Sejeno al si denes al pak zutra v jami.”

 

Megla v megli. Megleni glasi v tami.

Kervavi akordi vu stubičke drami.

 

Nella nebbia

Sanguina nebbia in una nebbia di sangue,

un cadavere nel fango,

nel teschio i vermi.

 

Chiese bruciate, santi insanguinati,

fumo, incendi, nebbia, nella nebbia i morti.

 

Nella nebbia, in lontananza, uggiolìo di cani, buio,

un povero di Bistrica, una povera di Bistrica.

 

Si allunga l’ombra di una donna che si trascina lungo la siepe,

fumo, nebbia, nella nebbia lo zoccolo della peste.

 

Galoppa come una furia sulla carogna di uno stallone,

nella nebbia, nel buio, nella distanza sorda.

 

Nel granaio, all’ombra del fieno umido,

come l’ombra di un’ombra è passata un’ombra.

 

Stivali nel fango, ancora un’ombra.

Nebbia. Silenzio. Tempi nebbiosi.

 

“Psst, ragazzi, tacete, presto, prestissimo,

kirie eleison, siamo appesi alla croce!”

 

“Giù la testa a tutti i bani, ai prefetti e capitani,

eccellentissimi ed eminentissimi!”

 

“Se non ci solleviamo, non resusciteremo mai!”

 

“Tre tazze di polvere di piombo, fuoco d’esplosione,

quelli di Gurkfeld hanno detto che verranno con noi!”

 

“Fa lo stesso se nella fossa ci vai oggi o domani”.

 

Nebbia nella nebbia. Voci annebbiate nell’oscurità.

Sanguinosi accordi nel dramma stubiciano.

 

 

Elenco delle opere poetiche

  • Pan (1917)
  • Tri Simfonije (1917)
  • Pijesme (3 Voll. 1918/19)
  • Lirika, (1919).
  • Knjiga Pjesama (1931)
  • Balade Petrice Kerempuha (1936)
  • Pjesme u tmini (1937)

 

Traduzioni italiane

  • Le ballate di Petrica Kerempuh, traduzione di Silvio Ferrari, Torino, Einaudi, 2007.

 

Consiglio di lettura dell’autore

In questo caso la scelta per consiglio di lettura è impresa semplice ed immediata, in quanto l’unica opera poetica di Krleža disponibile in italiano è la traduzione del suo capolavoro, le Ballate di Petrica Kerempuh, a cura di Silvio Ferrari ed edita presso Einaudi nel 2007.

A proposito della traduzione italiana delle Ballate, va evidenziato lo straordinario lavoro svolto dal traduttore Silvio Ferrari, il quale è stato chiamato a cimentarsi in un lavoro improbo a causa del particolare registro espressivo scelto da Krleža, (come abbiamo visto una lingua al tempo stesso arcaica – peraltro un dialetto – ed innovativa al tempo stesso per l’originale gramelot assemblato dallo scrittore croato, che di fatto trasforma l’antico dialetto kajkavo in una sorte di koinè della mitteleuropa orientale)  e il continuo rimando, nelle varie ad episodi della storia croata e dei paesi che ne condividono l’universo culturale, davvero difficili da comprendere.

Ferrari ha condotto un’operazione non da meno di quella di Krleža in termini di genialità, non attenendosi necessariamente alla traduzione letterale (in questo caso praticamente impossibile), ma ricostruendo il contesto storico – antropologico di riferimento, in un lavoro di grande impegno ed efficacia filologica, ottenendone un risultato di notevole valore.

[1] Il passo fa riferimento a György Dózsa (trascritto però secondo l’alfabeto croato), capo della rivolta contadina in Ungheria, nel 1514. Fatto prigioniero dal futuro re Ivan Zapolja, venne brutalmente ucciso dopo essere stato messo su di un trono di ferro arroventato, con in capo una corona ferrea, a sua volta ardente. Al trono vennero fatti avvicinare nove contadini – poiché uno dei temi della rivolta era legato alla condizioni di fame in cui versavano le plebi contadine di quei territori – costretti a mangiare le parti del corpo del leader della rivolta. Coloro che si rifiutarono, furono uccisi sul posto.

[2] Onomatopea derivante dallo scricchiolio della neve sotto la suola delle scarpe

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