Mario Gabriele – Reperti metropolitani
Gabdesign Editore, 2024, pagg. 87, Euro 10,00

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La poesia di Mario Gabriele ha un valore che potremmo definire epifanico, segno tipico del resto della grande poesia, quella materia misteriosa che riesce miracolosamente a trasformare in parole ed illuminare il magma ispirativo iniziale del poeta, la sua folgorazione creativa.

In Reperti metropolitani, appena uscito per i tipi della Gabdesign, ritroviamo racchiusa appieno la cifra intellettuale, nonché l’intero percorso di ricerca poetica dello scrittore molisano. Nel suo lungo itinerario, avviatosi con le sue prime pubblicazioni che datano agli anni ’70 (la sua prima raccolta è infatti Arsura del 1972), Gabriele si è caratterizzato per un lavoro certosino ed encomiabile svolto sull’affinamento del linguaggio e dei canoni espressivi della poesia, distinguendosi – in un panorama complessivamente statico in questo senso, quale quello della produzione poetica italiana – come uno dei pochissimi veri innovatori; un’innovazione però, non fine a sé stessa (cioè non limitata al solo piano stilistico, che per i risultati raggiunti da Gabriele sarebbe già stata una connotazione meritoria), ma che si declina anche nell’ampliamento del quadro di quello che si suole chiamare il “dicibile” poetico, vale a dire l’estensione dell’ambito della trattazione poetica. rispetto all’usus scribendi tradizionale.

A suo ulteriore merito peraltro, va sottolineato il fatto che Gabriele non si è limitato a scomporre i modelli di versificazione prevalenti nella tradizione italiana a partire dagli anni ’80 (gli anni del ripiegamento nella cultura italiana sulla sfera del personale dopo l’epoca dell’impegno e del primato del sociale e del politico), per trovare un punto di ricomposizione in un modello di equilibrio, in cui la tradizione non viene frantumata, bensì risulta rigenerata in un’operazione di purificazione linguistica ed espressiva, necessaria per individuare una strada che ponga anche la poesia italiana sulla scia della post-modernità.

Un connubio, quello fra tradizione e modernità che in fondo riassume l’itinerario non solo poetico, ma anche culturale-esistenziale di Mario Gabriele, che dall’atelier poetico della sua Campobasso, ha trovato l’humus ideale per realizzare tale sincretismo, lontano dalle suggestioni salottiere o dagli strali avanguardistici di Roma e di Milano.

In Reperti metropolitani, sembra suggellarsi il progetto seguito di Mario Gabriele in questi ultimi vent’anni, quello cioè di  rielaborare la «materia» poetica, attraverso la disarticolazione dei nessi semantici tradizionali, in un contesto in cui ad esempio la metonimia si sostituisce all’uso “piano” della scrittura, in cui inserti tratti da citazioni letterarie,  da echi musicali (soprattutto jazzistici), da tracce filosofiche, da reminiscenze cinematografiche, dal glossario del mondo digitale, da prestiti linguistici vari, dall’onomastica e dalla toponomastica, vanno a costituire una fitta rete di soluzioni espressive che ampliano il terreno poetico.

Il quadro narrativo disperde l’unità spazio-temporale per concentrarsi invece sulla ricerca dei nessi profondi che illuminano il percorso storico e cosmico, tra rotture e costanti, vagando nel tempo e tra i luoghi, alternando il vissuto e l’immaginato o il percepito, il reale e l’onirico, in un quadro stilistico in cui la metafora, strumento privilegiato dell’espressività poetica, si incastona all’interno di un registro linguistico descrittivo che consente una straordinaria dilatazione dell’osservazione poetica; Gabriele rende possibile tutto ciò, procedendo con una scrittura per frammenti o brevi passaggi paratattici a ricostruire un possibile continuum nell’itinerario umano, esaltato anche dalla struttura in veste di poema dell’opera, dove i vari componimenti vanno a costituire in realtà un unicum.

Già nel brano d’apertura della raccolta, Gabriele ci fa subito entrare nel vivo della cifra specifica – oltreché della qualità – della sua scrittura: Le cose in cui credevi/non erano come voleva Molly/ma hub tecnologici./Eppure c’era stato un dream cosmico/su Vogue British che allarmava/il mattino appena nato./Filosofia e scienza portarono Barrow e Tipler/al Principio antropico fino al Big Crunch/di Rudolf Clausius./I am not era l’unica epigrafe di James/lasciata alla Berlitz school.”

In realtà, siamo di fronte ad un’impalcatura poetica che prende le distanze dallo sperimentalismo strictu sensu (il cui limite in molti casi è l’autoreferenzialità, cioè il gioco della costruzione testuale in sé) ed in cui la tendenza elegiaca si diluisce nel tono narrativo; analogamente,  le immagini e citazioni riportate, rifuggono da  qualsivoglia intento didascalico o di autocompiacimento ed anche la loro valenza simbolica, si accompagna alla funzione riempitiva che le stesse immagini assumono di fronte allo svuotamento dell’universo significativo tradizionale, nella liquefazione delle relazioni di senso che caratterizza il mondo attuale.

In effetti a ben vedere, è proprio questo il senso ultimo del percorso di ricerca che ci propone Mario Gabriele: non solo il rinnovamento estetico di una tradizione stilistica impaludata, indirizzandola verso un’ottica più ampia, ma l’individuazione di una struttura semantica in grado di riflettere nella poesia, la frantumazione dell’ordine cosmico attuale e restituire in sostanza alla poesia la sua vera essenza d’arte, insita nell’operazione mimetica della realtà.

Gabriele si assume in pratica una responsabilità enorme, quella di decretare la morte della poesia novecentesca e di colmarne il relativo vuoto, possibilità che egli sembra intravedere in una sorta di metapoesia, in un incontro con altre forme espressive in cui la poesia ripulita da calchi ed incrostazioni – grazie alla sua capacità di ricreare, re-inventare il mondo  – si  pone come caposaldo di tale progetto di palingenesi creativa; rientra in quest’orientamento anche il suo disinteresse ad esprimere giudizi, sostituiti da tracce di rappresentazione, direttrici narrative che il lettore può ricucire ed interpretare in base alla propria sensibilità.

La rappresentazione artistica del caos e dello spaesamento del mondo moderno – sembra volerci dire Gabriele – passa evidentemente attraverso la destrutturazione dei discorsi classici, che sono quelli ufficiali, quelli dell’ordine costituito ormai frammentato: e dunque è nei residui di quotidianità, dispersi nei meandri dei nostri luoghi esistenziali, tra i relitti metropolitani appunto, che ci si offre l’opportunità di ricostruire il costrutto della storia recente del mondo e delle sue correlazioni antropologiche, a patto di attuare un’operazione rivoluzionaria come suggerisce Gabriele e cioè saperci distaccare dall’involucro rassicurante delle rotte della poesia dell'”io” e dotarci degli strumenti per saper scoprire dimensioni altre della narrazione e della costruzione dell’universo.

 

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