Marco Rovelli: “Ripoliticizzare la salute mentale”
Intervista al cantautore e scrittore sul libro "Soffro dunque siamo" (minimum fax, 2023).

Condividi:

“Nella narrazione egemone nella società degli individui, la natura relazionale della persona umana, la sua natura sociale, scompare: scompare la sua storia, scompare la parola”. Lo scrive Marco Rovelli nel suo ultimo libro “Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui”, recensito su Free Zone qualche settimana fa. Un libro in cui si contesta il riduzionismo che sottrae l’esperienza e la sofferenza delle persone a qualsiasi discorso sulle determinanti economiche e politiche per consegnarle al dominio della “chimica individuale”. Un libro che ci interessa non soltanto perché il suo autore è un musicista e bazzica i territori che stanno a cuore a Free Zone. Ho avuto modo di scambiare qualche battuta con lui dopo la lettura…
(La foto in apertura è di Michele Faliani e ritrae Marco Rovelli al Premio Ciampi, Teatro Goldoni di Livorno, 2018; grazie all’autore).

Free Zone: Marco, naturalmente la prima curiosità è su come hai pensato di scrivere un libro sulla salute mentale.

Marco Rovelli: Come riattivare la politica, intesa come trasformazione della società, come creazione di un possibile: il libro nasce da questa esigenza. E circa cinque anni fa mi sono reso conto che per farlo era necessario passare di qui: parlare della sofferenza, di quanto essa ci riguardi tutti, proprio in quanto singolarità traversate da flussi che non sono “individuali”, ma relazionali. L’innesco è stata la lettura di Mark Fisher, che poneva la questione di ripoliticizzare la salute mentale, oggetto di un processo di privatizzazione e individualizzazione nella stagione neoliberale, come questione decisiva per ricominciare a immaginare un futuro possibile. Da lì ho iniziato una lunga traversata in questo sterminato territorio della sofferenza e della salute mentale, studiando libri e parlando con tantissimi operatori del settore. Ho cercato di fare un libro analiticamente rigoroso e al contempo divulgativo, leggibile da chi è totalmente al di fuori del campo specialistico. Analisi ma anche storie di vita, che facessero sentire empaticamente la carne e il respiro di chi attraversa una sofferenza che non è solo “sua”.

FZ: Nella recensione partivo dalle ultime parole del tuo libro su Claudio Lolli, “Si tratta di tener viva la vita, con ogni mezzo possibile”…

MR: Sì, anche in questo caso si trattava di “tener viva la vita”: e non solo perché la vita si tiene viva raccontando e salvando storie, “passando a contropelo la Storia” come diceva Benjamin. Ma anche perché la si sente come un fatto collettivo, che trascende le mere individualità isolate. La vita è un processo che non appartiene a nessuno, e la sua liberazione è cosa di tutti. In questo senso la vita è politica, perché è un processo creativo collettivo.

FZ: Sai, dopo aver letto il tuo libro mi è capitato di ascoltare alla radio un servizio sulla “great resignation”, le “grandi dimissioni”. La narrazione corrente la racconta come un’imperiosa spinta a una specie di liberazione dal mito della produttività; invece sempre più sembra una nuova declinazione dell’ideologia competitiva del “sii imprenditore di te stesso”, e spesso interessa gente che lascia posti ben pagati per mettersi in proprio. Insomma, la salute e la libertà bisogna potersele permettere…

MR: Mi viene in mente quel che diceva don Milani: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. L’egemonia culturale neoliberale ha provato a cancellare questa dimensione del “sortirne tutti”. Ognun per sé, sgomitando nella giungla hobbesiana, al grido di guerra “eccellenza!”, “merito!”. Devi esser tu all’altezza: e se non lo sei, ti tocca di soffrire. E se non riesci a esser “resiliente”, è perfino giusto che tu soffra.

FZ: Sì, è il punto dove il discorso prende una insopportabile piega moralistica, colpevolizzante. Il lavoro non c’è per tutti, ma se non lavori sei un parassita. Così sei dannato se cerchi un lavoro, sei dannato se non lo cerchi. È un doppio legame, un gioco che – a proposito di salute mentale – fa impazzire, non metaforicamente…

MR: Il lavoro non c’è, e dunque se lo trovi devi adattarti a qualsiasi condizione possibile – anche se non è immaginabile. Lavori usuranti, servili, ipeprecari, mal pagati – dove la competitività, la solitudine, la performatività producono una pressione enorme. Almeno, nel manager di successo che ha consegnato la sua vita al lavoro c’è il vantaggio dell’adesione totale a questo modello immaginario, l’ideale dell’Io è tutto schiacciato sul successo, sulla performatività. In questo caso non c’è nemmeno il vantaggio di quella menzogna di cui godere.

FZ: “Sortirne tutti o da soli”, dicevi. Nel tuo repertorio ci sono canzoni popolari di anni in cui i lavoratori cominciavano a organizzarsi come categoria. Ora il sottotitolo del tuo libro fa riferimento alla “società degli individui”: siamo tornati ad essere soli, insomma?

MR: Sì, la solitudine del lavoratore è qualcosa che mi si era fatto chiaro già quindici anni fa, quando avevo scritto Lavorare uccide, un’inchiesta sulle morti sul lavoro. La frammentazione del lavoro, la moltiplicazione di contratti di ogni tipo, la perdita di legami. Non c’è più, troppo spesso, un supporto collettivo, che finiva per essere anche un sostegno psicologico ed esistenziale. Adesso si crolla da soli.

FZ: Com’è il confronto con gli addetti ai lavori della salute mentale, nelle presentazioni del libro? Come viene accolto il tuo tentativo di portare l’argomento fuori dai luoghi deputati, di spostare il focus della questione nella società, e soprattutto fuori dalla scatola cranica degli individui?

MR: Avevo qualche timore, essendomi messo a studiare la questione da “non esperto”: Invece, moltissimi psi hanno espresso pareri entusiasti sul libro, mi hanno dato e mi danno un grande sostegno nel portarlo in giro. Ovviamente parlo degli psi che concepiscono il disagio psichico in senso relazionale, quindi la minoranza. Ma tra questi, il libro è visto nel modo in cui io stesso l’ho immaginato, ovvero come uno strumento da usare per una prassi collettiva di liberazione.

Foto di Narciso Moschini, grazie all’autore.
Condividi: