Bruce Springsteen, tutto è cambiato.
Intervista a Luca Giudici sul suo libro "Abbagliati dalla luce” (che torna in libreria, aggiornato)

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Nel 2019 la letteratura su Springsteen era ovviamente abbondante, ma mi capitò di sapere della gestazione di un libro di Luca Giudici sul Boss e, conoscendo la profondità dello sguardo dell’autore, mi feci l’idea che “Abbagliati dalla luce” avrebbe costituito una novità assoluta nel genere. Poi uscì, per l’editrice Zona, e la lettura mi confermò che era un libro che alzava l’asticella. Giudici — laureato in filosofia, cultore di fantascienza — affronta l’opera di Springsteen da una prospettiva complessa, storica, sociologica, politica, letteraria, persino psicoanalitica: perché se si pensa alla figura di Bruce come emerge dall’autobiografia e dallo spettacolo di Broadway, si capisce come il dolore emotivo offra una chiave di lettura per capire la sua musica e il modo in cui negli anni ha costruito il proprio rapporto col pubblico.
Alla fine del 2022 la notizia: “Abbagliati dalla luce” esce in una edizione aggiornata. E racconta, al presente, i mutamenti che nel 2019 presagiva.

Free Zone: Luca, come mai una seconda edizione del libro dopo tre anni?

Luca Giudici

Luca Giudici: Diciamo che potrei risponderti a diversi livelli. Innanzitutto potrei dirti dell’aspetto commerciale, e intendo la volontà di rilanciare il libro al di là della sua collocazione temporale. Ma poi è chiaro che vi è una considerazione di diverso spessore, relativa proprio al modo di Bruce di intendere la musica e il suo lavoro. Analizzare l’arte di Springsteen secondo queste categorie è complesso e delicato, mentre oggi si tende sempre a ridurre un testo a slogan e frasi esemplari.
La prima edizione di “Abbagliati dalla luce” si ferma sostanzialmente agli inizi delle serate a Broadway. Da quel momento tutto nella forma e nella sostanza di Springsteen è cambiato — anche se lui lo nega.
È cambiato il suo rapporto con la E Street Band, con la musica, con il pubblico, con la poesia. Questa non è una critica, il suo cambiamento ha radici profonde, nell’idea che aveva di sé stesso prima e in quella che ha ora. Dopo l’atto catartico, l’autobiografia, tutto ha un peso diverso.
Stabilito questo, e ovviamente dopo averlo parzialmente sviscerato, si può leggere tutto quanto è seguito alla luce di questo lampione, ed è quello che ho cercato di fare.

FZ: Ora il libro arriva addirittura a Only The Strong Survive, praticamente all’altro ieri!

LG: Detto tra noi abbiamo deciso di aggiornare il libro proprio quando è stato confermato sia il tour che l’album. Io avevo già proposto di utilizzare il materiale scritto in questi tre anni per aggiornare il volume, anzi, io avrei voluto rivederlo completamente. Si è giunti a un compromesso, per cui avremmo aggiunto dei capitoli sull’ultima fase, lasciando com’era il resto del libro.

FZ: Quando dici che per Bruce tutto è cambiato, intendi cambiato per sempre?

LG: Credo che vada detto esplicitamente che il suo cambiamento è stato un atto senza ritorno, e la mia paura è che tutti coloro che hanno vissuto questi anni nell’attesa messianica di un tour “come una volta” si ritrovino di fronte il simulacro di ciò che cercavano, perché oggi Springsteen è altro (non migliore, non peggiore: altro) e il transfert collettivo del concerto non è più un elemento della sua terapia. Costruire un fantasma, una impalcatura fittizia che provi a nascondere il tempo che passa può ingannare solo chi vuole a qualsiasi costo farsi ingannare.

FZ: A proposito di inganno, indubbiamente l’autobiografia e lo spettacolo di Broadway segnano in un certo senso la fine del gioco, il suo disvelamento. Bruce dichiara che tutte quelle storie sulla fabbrica e sull’essere nato per correre sono fiction, “Vivo a dieci minuti da dove sono nato”…

LG: Sono assolutamente d’accordo. È per questo che l’attenzione sullo Springsteen “post Broadway” è centrale. Ormai il re è nudo e non può più (ma soprattutto non vuole più) comportarsi come se nulla fosse. I fan continuano a sperare in un tour affine a quanto abbiamo visto in passato, e alla fine lo troveranno, visto che in ogni caso lui è sempre Springsteen, ma è fuor di dubbio a mio parere che la presenza scenica che conosciamo non ci sarà, né fittizia né reale. Chi sarà onesto vedrà la differenza, senza contare poi i sette anni che sono trascorsi dal 2016.

FZ: Dunque non è un caso che dopo Broadway arrivi Western Stars, l’album nel quale si allontana dalla sua immagine di rocker da stadio…

LG: Delle tre tappe successive, Western Stars è senza dubbio il suo ritratto. È la solitudine e il deserto. In Letter to You, disco impregnato di morte e inverno interiore, tenta un passaggio salvifico con la Band, ma il risultato è per lo meno imbarazzante, soprattutto per lui in quanto essere umano, non tanto per la musica, che viene salvata dall’introduzione di tre splendidi pezzi storici. La difficoltà e l’angoscia che vi sono sepolte emergono invece nel film, dove lui appare come un vecchio semirimbambito e gli altri come tale lo trattano. Only The Strong Survive, infine, è pura finzione. Basta fare il confronto con il concerto dell’Apollo Theater, 9 marzo 2012, dove il soul era concreto, e non si può non rendersi conto della patinatura stile Cosmopolitan di quest’album. Con tutto che si ascolta con piacere ed è anche divertente, ma non ha nulla della ricchezza che mi aspetto da Springsteen. Unici momenti vitali (per modo di dire), quando ritornano i fantasmi.

FZ: Ma secondo te cos’è Only The Strong? Un passaggio di questa nuova “fase” della “terapia”?

LG: Only the strong Survive è senza dubbio la plateale conferma di questa mutazione. È lontano anni luce da quello che è stato Springsteen. Non credo onestamente in un valore terapeutico…

FZ: Te lo domando perché da un lato recupera una parte importante della sua storia (le canzoni soul) e dall’altra prende la distanza da quella storia: via la E Street Band e dentro un produttore pop a suonare tutti gli strumenti! Certo, non è la prima volta che si separa dai “blood brothers”, ma un tempo sarebbe sembrato inconcepibile che potesse accadere proprio per l’album più esplicitamente black della sua carriera! Sembra quasi un attacco a un pezzo della sua biografia…

LG: Se proprio devo dirla tutta credo che abbia dovuto rispettare impegni contrattuali. Nelle interviste rilasciate per l’uscita di Only the strong Survive lui dichiara esplicitamente che non aveva intenzione di scrivere ancora dopo Letter To You, e che si è ritrovato a registrare questi pezzi. Io credo che Aniello, Landau e i discografici abbiano fatto pressioni per un album prima del tour, e che abbiano trovato questa soluzione di compromesso. Un album di cover soul, con un vol. 2 che arriverà in primavera, oltre all’annunciato Tracks 2, probabilmente un modo “indolore” di rispettare gli accordi commerciali che gli impongono un certo numero di album. Ai primi concerti, già a febbraio, potremo capire lo spirito con cui affronterà il palco, vedremo se ha trovato in sé un modo nuovo e diverso per proporre la sua musica.

FZ: Nel tuo libro previeni la critica di chi potrebbe dire che una chiave di lettura complessa come quella che hai scelto forse è adeguata ad “autori con una maggior potenza intellettuale”, con maggior consapevolezza di un rocker. Ti va di tornarci su?

LG: Non ho mai pensato che la coscienza di ciò che si fa sia un elemento determinante. Anzi. Se la propria attività, di qualsiasi tipo sia, incarna un tempo o uno spirito, una tendenza, questa emerge indipendentemente dall’intenzione di chi agisce. Nel soul quasi mai gli autori hanno preso atto di quanto fosse rivoluzionaria la musica che stavano componendo, anzi, nella maggior parte dei casi avevano come unico obiettivo i diritti della vendite. Questo però non ha mai impedito a chi è stato dotato della sensibilità adatta di collegare gli aspetti commerciali con il senso della propria appartenenza a qualcosa. Penso a Sam Cooke, a Otis Redding, anche a Diana Ross, solo per citare tre tra i più famosi. Lo stesso senza dubbio vale per Springsteen, che non è mai stato Bob Dylan, né Woody Guthrie o Pete Seeger, ma ha sempre saputo percepire ciò che in loro era davvero importante e rifarlo a modo suo. In tutto ciò la cultura, l’intenzione o la coscienza non contano nulla, conta l’anima, il tuo spirito, la tua capacità di immergerti in un mondo e diventarne la voce.

FZ: Peraltro proprio il tuo saggio dimostra che uno sguardo storico e sociologico che guarda al pubblico del rock o al mercato discografico nel caso di Springsteen è tutt’altro che una forzatura: della sua “terapia” fa parte la ricerca di un seguito più grande possibile, di una moltitudine di occhi da cui essere guardato. In questo senso è stato abile nell’“usare” i meccanismi del mercato musicale. Sei d’accordo?

LG: Certamente la lettura sociologica del rock non l’ho inventata io. Springsteen si presta particolarmente, proprio per il rapporto che ha costruito con il pubblico.
Abile, dici? Più che abile io direi che ha ottenuto ottimi risultati dal suo perfezionismo maniacale. Un’altro come lui era Miles Davis, ossessionati entrambi dallo sforzo di ottenere il suono che avevano in mente. Dei visionari, convinti (a ragione) di avere in mano le carte giuste per raggiungere un particolare risultato musicale. Il fatto che quello che cercava rispondesse anche alle esigenze del pubblico, e quindi diventasse un successo, è ovviamente un elemento rilevante, ma non determinante. Working On A Dream è stato un flop, sia di pubblico che di critica, ma Springsteen lo ha sempre difeso, per lui è stato un passaggio centrale, e lo ha rivendicato. Quindi arte, terapia e successo hanno sempre dovuto bilanciarsi tra loro, in un equilibrio molto spesso instabile e che ora è stato definitivamente accantonato. Il pubblico è diventato un elemento di secondo piano, analogamente alla Band. Ho l’impressione che sia costretto dagli impegni contrattuali, e dal dovere che sente verso i suoi vecchi compagni.

FZ: La questione del prezzo dei biglietti ha sorpreso…

LG: Ecco, le sue ultime dichiarazioni su questa triste questione sono totalmente esplicative: faccio in modo che i soldi arrivino alla band, piuttosto che a promoter e bagarini. Il pubblico è scordato, tralasciato. Conta poco o nulla. Non parliamo più di trasporto o partecipazione, ma delle clausole di accordi commerciali che si devono chiudere. Io prevedo in tempi brevi il suo ritiro dal palcoscenico. il suo stile dal vivo non è quello sfuggente di Bob Dylan, e di conseguenza credo che si fermerà. Onestamente credevo che già questo tour lo avrebbe fatto nei teatri o nei palasport, piuttosto che negli stadi, ma ancora credo che abbiano prevalso le scelte di scuderia.

FZ: Luca, per concludere: cos’è che tanti anni dopo aver scoperto Born To Run su Radio Popolare tiene ancora desto il tuo interesse per la musica di Bruce e il tuo desiderio di capirne di più?

LG: Rimane uno dei coltelli più affilati, quando decodifica il reale. Western Stars per me è un disco che resterà nel tempo, al di là della musica, proprio per la spietata analisi del nostro tempo che vi è inclusa. Dopodiché lui è completamente scazzato, non gliene importa nulla, non vedo in lui obiettivi, progetti o altro. Va detto però chiaramente che fuori è il deserto, proprio quello di cui parla lui. Non c’è nessuno che si provi a costruire un’analisi compiuta, che non sia la storiellina per la stagione. Nessuno, a parte Dylan.
Ci sono dei video di Omara Portuondo, credo che tu la conosca, ormai credo abbia quasi novanta anni. Le fanno fare i video con le nuove voci, come la madrina. Lei li fa, e quando apre bocca i musicisti rimangono muti e fermi. Ce ne sono con Joss Stone, che ovviamente la venera. Omara la guarda e le si legge in faccia quanto sia distante da quella ragazzina yankee. Come Joni Mitchell lo scorso anno, costretta a esibirsi con Brandi Carlile. A sprazzi si accendeva, come una nova, e allora ti viene da piangere a pensare un’artista così grande costretta alla prostituzione per quattro marchette. Purtroppo è la via su cui è incamminato Springsteen, dove già si trova Paul McCartney, per non parlare degli Stones.

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