La cattura di Messina Denaro e l’antimafia sociale

striscione carovana europea per la legalità appeso ad un busto di bronzo
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Ci sono voluti trent’anni per arrestare Matteo Messina Denaro. Venticinque per arrestare Toto Riina. Addirittura, trentotto anni per consegnare alla legge Bernardo Provenzano. Tutti catturati non in paesi lontani con nuove identità, ma presi “sotto casa”, dentro a quel territorio che controllavano e governavano.

Questi lunghissimi anni di latitanza spiegano al meglio il concetto di mafia, la sua diversità profonda dalla criminalità comune, anche di quella violenta e brutale. Non sono i “picciotti armati”, i covi segreti, le false identità a proteggere la latitanza dei boss mafiosi: questi rappresentano uno strumento per loro molto importante ma ciò che ne stabilisce al meglio “l’impunità” è il sistema che li circonda. Un mondo parallelo e alternativo alla società legale, ove la mafia, attraverso la violenza, la corruzione ma anche la protezione, la “solidarietà” per chi accetta le regole dell’Onorata Società, costruisce il suo consenso e il suo potere. È il condizionamento, diretto o indiretto, di interi territori ove si lavora, si può trovare un posto in una clinica in tempi rapidi, si può fare impresa solo servendo i clan mafiosi, oppure anche semplicemente tacendo e non “vedendo”.

Ecco il brodo di cultura delle mafie, forse ancora più grave di chi traffica e fa affari con i mafiosi, è il silenzio, la cecità, la sordità di chi vive nelle zone in mano alle cosche, luoghi che non si limitano alle zone del sud (ricordiamo che la Lombardia è considerata la quarta regione per mafie in Italia e la seconda per la presenza della ‘ndrangheta). Le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. Solo così si spiega lo stupore, probabilmente onesto, di chi non si è accorto di nulla, di chi non ha visto, sospettato, riconosciuto Matteo Messina Denaro in quel concittadino che si muoveva liberamente fra le strade di Campobello di Mazzara e la clinica di Palermo.

Il lavoro delle forze di polizia e dei carabinieri, l’impegno della magistratura è encomiabile. Il loro spirito di abnegazione e anche il pericolo costante in cui vivono di diventare vittime degli uomini d’onore. Senza questa abnegazione lo Stato avrebbe da tempo abbassato la testa davanti ai ras mafiosi. Ma non da meno importante è l’impegno dell’antimafia sociale. Chi non ricorda l’ira degli abitanti di Palermo il giorno dei funerali delle vittime della strage in cui perì Giovanni Falcone, o la stessa rabbia per l’assassinio di Paolo Borsellino e la sua scorta? O le lenzuola bianche alle finestre del capoluogo siciliano per denunciare la mafia? In quell’estate del ’92 in cui morirono a distanza di poche settimane i due giudici più famosi e più esposti d’Italia si buttarono anche le basi per un nuovo risorgimento nazionale capace, almeno, di chiamare la mafia col suo vero nome. E infatti il pomeriggio del 14 dicembre 1994, le agenzie di stampa lanciano in rete la notizia: «Nasce Libera, cartello di associazioni contro le mafie». L’idea, annunciata da don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, raccolse l’adesione di trecento tra gruppi e associazioni. È l’antimafia sociale che si prende la scena e non la molla più.

Facciamo un passo indietro. Nel nostro paese, fu l’intuizione di Pio La Torre e Virginio Rognoni a portare il nostro ordinamento a dotarsi della legge 646 del 13 settembre del 1982.

Questa legge prevede misure di prevenzione patrimoniale quali il sequestro e la confisca di beni illecitamente acquisiti, direttamente od indirettamente, di indiziati di associazione mafiosa. Fu così anche introdotto nel nostro Codice penale il reato di associazione mafiosa, il famoso articolo 416 bis, arrivando finalmente a una definizione precisa del significato di tale organizzazione criminale.

Un anno dopo la sua fondazione Libera lancia un appello perché i beni confiscati alle mafie tornino alla società per iniziative di bene comune. Primi firmatari l’attuale Presidente della Repubblica Segio Mattarella e l’ex magistrato del pool antimafia di Palermo Giuseppe Di Lello. Furono raccolte un milione di firme di semplici cittadini. Il 7 marzo 1996 la commissione giustizia ha approvato la legge 109 in sede deliberante (cioè senza il passaggio in aula). Oggi quelle norme sono incluse nel codice antimafia, il decreto legislativo del 2011 che ha riordinato le leggi in materia definendo meglio anche il ruolo dell’Agenzia Nazionale Beni Sequestrati e confiscati, nata nel 2010.

Dalla fine del secolo scorso l’antimafia sociale ha fatto grandi passi in avanti. Gestisce bene portati via ai boss mafiosi e restituiti alla collettività, costruisce percorsi di studio e informazione nelle scuole rivolte ai giovani, si batte contro il bullismo e la prepotenza fra le giovani generazioni, ricorda, ogni 21 marzo, i morti per mano mafiosa, aiuta i commercianti caduti nella spirale del pizzo, distribuisce i prodotti coltivati nelle aziende e nei terreni agricoli confiscati alle cosche mafiose. Soprattutto sperimenta un nuovo alfabeto e un nuovo linguaggio: la mafia non è invincibile. Si può battere ma serve l’impegno di tutti.

Serve che le arretratezze economiche, le difficoltà in cui versano intere zone del nostro paese, la disoccupazione, specialmente quella giovanile, la corruzione e le collusioni con la politica siano individuate e risolte. Solo così si potrà imporre una nuova narrazione, una narrazione che dia a tutti gli strumenti per capire la mafia che, a volte, ci circonda e che, a volte, non vediamo. Serve spiegare alla gente che le mafie impoveriscono i territori, li depredano delle risorse prodotte, se ne appropriano per costruire la loro ricchezza e il loro potere costringendo i cittadini a diventare loro “sudditi”

Diceva il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Lo Stato dia come diritto ciò che la mafia dà come favore”.

E Antonio Ingroia, durante una intervista, mi riferiva le parole di Bernardo Provenzano: “dottor Ingroia io ho grande stima di lei. Quando va nelle scuole i ragazzi lo ascoltano in silenzio e con ammirazione. Ma quando diventano grandi, se hanno bisogno una casa o un lavoro vengono da noi”.

A chiusura dell’articolo le parole pronunciate da don Luigi Ciotti dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro: “Le mafie non si combattono soltanto con gli strumenti investigativi e la repressione. Le organizzazioni criminali affondano le radici nel vuoto dei diritti, nella debolezza e nella malattia delle democrazie: senza un cambiamento, una rigenerazione sociale e culturale, continueranno a sopravvivere, a trasformarsi, ad assumere forme adeguate ai tempi”.

 

 

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