Giorgio Benedetto Scalia – Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo
Pessime Idee, 2023, Pagg. 206, Euro 19.00

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Il fumo denso della stigghiola annebbia il cielo, insieme al vapore del polpo bollito, che sale da grossi pentoloni di rame, poi in sottofondo lo sfrigolio di panelle e crocchè e il borbottio della milza che affoga nella sugna. Viuzze e piazzette sono colorate di bancarelle coperte da tendoni rossi, alla cui ombra risplendono pomodori, tenerumi, semenze, angurie, olive e carne. Ma il vero protagonista della Vucciria è il blu argentino del pescato col suo aroma d’acqua salmastra. A ridosso di una piccola fontana si riparano, sotto i portici, i banchi del pesce. Calamari, sarde, frutti di mare, pescespada e crostacei riposano sui loro feretri di ghiaccio. I pescivendoli annaffiano la mercanzia per farla luccicare agli occhi dei passanti e fiumane d’acqua si riversano sulle balate. Forse per questo si dice che non sono mai asciutte. E in mezzo a questa confusione di odori e colori stordenti, da più di vent’anni, Saro Scordia cantava per celebrare la bontà del pesce della sua bancarella o, come si dice a Palermo, abbaniava. «Sarde fresche! Sarde Belle!»

Saro aveva fatto sempre la stessa vita. Andava a letto presto e si alzava molto prima dell’alba. Ma la sua sveglia non era impostata per il lavoro. Saro era già in piedi due ore prima dell’apertura del mercato ittico solamente per prendersi cura della sua chioma. Aveva poco più di cinquant’anni, ma sula testa ne dimostrava meno della metà. I suoi capelli erano folti e fluenti, neri corvini: ciuffo pettinato all’indietro, lunghi sulla nuca con la piega all’insù e due grossi basettoni, tagliati a metà guancia. Portava questo stesso taglio da sempre. Tutte le notti andava a dormire con la retina in testa e, a portata di mano, sul comodino, il pettine di tartaruga, il regalo più bello che nonna Anna gli avesse fatto.

Quella di Saro Scordia è una vicenda dai tratti surreali: pescivendolo della Vucciria di Palermo, Saro è morbosamente legato alle abitudini consolidate del micromondo nel quale sopravvive, alla figura della nonna adottiva Anna e alla sua capigliatura.

Quando però una colomba bianca gli strappa un ciuffo di capelli, Saro finisce col perdere tutta la sua chioma nel tentativo di salvarla, scoprendo sulla nuca una voglia con le fattezze di Gesù Cristo.
Acclamato come santo, il puro e onesto Saro riesce (o così pare) a compiere miracoli.

La sua vita fin lì tranquilla diviene presto un martirio, schiacciata tra le suppliche di chi ha bisogno di aiuto e l’avidità di chi vuole sfruttarlo. Ma poi, quando sarà giunto all’apice della sua fama, dopo aver incontrato Meri, un’anziana malata di cancro, e aver recuperato i suoi amati capelli grazie a un medico, la colomba bianca tornerà a chiudere il cerchio.

La scrittura di Scalia è fresca e vivace e il dialetto viene utilizzato in modo più o meno marcato a seconda dell’estrazione sociale dei vari personaggi. La lingua è portatrice di costumi e cultura e Scalia attraverso il suo realismo linguistico riesce a far comprendere molto bene la filosofia di ogni personaggio e soprattutto della città di Palermo.

La storia è disseminata di richiami a fatti biblici e concetti religiosi ma se il sacro, ad una prima lettura potrebbe apparire come un qualcosa di caricaturale, nelle vere intenzioni di Scalia il sacro rivela tutti i suoi contrasti e punti d’ombra e diventa una lente per vedere quanta superstizione e mistero porta con sé.

Giorgio Benedetto Scalia ha scritto un romanzo godibilissimo, divertente e struggente al tempo stesso, sospeso tra sacro e profano, tra terreno e ultraterreno, popolato da ingenui gabbati e furbi ecclesiastici. Un’agiografia dei tempi moderni raccontata con ironia e disincanto, ambientandola in una Sicilia, o meglio ancora, in una Palermo vitale e pittoresca.

 

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