Iggy Pop – Every Loser
Gold tooth records / Atlantic records, 2023

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76 anni d’età, 55 di carriera, generazioni di seguaci ed imitatori, un numero imprecisato di stili musicali esplorati, oltre a quello che ha quasi inventato, il punk. In questi casi, la domanda è sempre la stessa: che senso ha un disco nuovo di Iggy Pop nel 2023. Cos’ha ancora da dire o da dimostrare? L’ascolto, ripetuto e sempre più piacevole – di questo nuovo “Every loser” ha cambiato la risposta a questa domanda, almeno per chi scrive. Ci arriviamo.

La necessaria premessa è che il disco è stato scritto e prodotto da Andrew Watt, ex enfant prodige di Glenn Hughes (con cui suonava la chitarra nei California Breed a soli 23 anni, insieme a Jason Bonham), con gli stessi musicisti di base (Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers alla batteria, Duff McKagan dei Guns N’Roses al basso, e lo stesso Watt alla chitarra insieme a Josh Klinghoffer, ex RHCP e attualmente Pearl Jam) degli ultimi due acclamati dischi di un altro vecchio che continua a sfuggire a una pensione annunciata: Ozzy Osbourne. Anche la formula è la stessa, già sperimentata con successo da Rick Rubin, Dave Cobb e, in misura minore, T-Bone Burnett: riportare l’artista alle sue origini, limitarlo al territorio in cui si esprime al meglio e rimettere su disco le ragioni stesse per cui è diventato una leggenda, senza divagazioni, senza sovrapproduzione, senza fronzoli, senza distrazioni né sperimentazioni. Pura essenza.

Su queste premesse, i 37 minuti scarsi di “Every loser” sono già un successo. Il primo singolo, nonché traccia d’apertura del disco, rende impossibile non pensare al motivo principale per cui il nome di Iggy Pop sia immancabile su ogni libro di storia del rock: Raw Power. Così come le successive Modern day ripoff, All the way down, Neo punk. Queste canzoni servono non solo da promemoria su chi sia Iggy Pop, davvero e in primo luogo, ma anche a mettere in chiaro che tutto può dirsi di lui tranne che si sia ammorbidito o adagiato sugli allori di una lunghissima carriera. Ma anche a smentire la vecchia maledizione del rock per cui si nasce incendiari e si muore pompieri.

Tuttavia, l’effetto di un “Raw Power 2” sarebbe stato caricaturale. Per questo c’è una seconda vena, oltre alla furia punk senza compromessi, che scorre tra i solchi di questo disco. Se è vero che radici e tronco del successo di Pop stanno a cavallo tra i ’60 e i ’70 del secolo scorso, alcuni di rami più grossi stanno negli anni ’80. Ed è così che, esaltando il suo lato crooner, Watt rende giustizia allo splendido “rantolo” baritonale di Iggy Pop cucendogli addosso delle splendide ed eleganti ballate “pop” di derivazione new wave, ma adeguatamente venate di hard e spruzzate di rock, come una versione dark dei migliori Simple Minds: New Atlantis, la bella e riflessiva Morning show, l’elegante e ipnotica Strung out Johnny e – ancor più – Comments; che insieme a The Regency rappresenta, ad oggi, l’ultima incisione di studio del compianto Taylor Hawkings (Foo Fighters). Significativi anche i due brevi interludi parlati/recitati The news for Andy e My animus, che valgono l’ascolto anche solo per godere della voce profonda e dell’eloquio accattivante del nostro.

Utili ma non indispensabili condimenti, i numerosi ospiti di un disco del genere, più utili a creare “buzz” attorno all’uscita discografica che per il reale contributo artistico (nessuno si accorgerebbe della loro presenza se non fossero annunciati nei credits. La carrellata è lunga, quanto poco incisiva: Travis Barker (Blink 182), Stone Gossard (Pearl Jam), Chris Chaney (Jane’s Addiction, Alanis Morrisette), Dave Navarro (Jane’s Addiction, Red Hot Chili Peppers).

Come le associazioni algoritmiche di Spotify consentono di notare, l’elegante mix tra dark-wave anni’80 e hard rock non è dissimile da quello dell’ultimo disco dei Cult, ma con meno sovrapproduzione e quindi di maggiore e più immediato impatto.

Magari non le continueremo a cantare tra dieci anni, ma le composizioni sono tutte di buona qualità e ben cucite addosso al vecchio Iguana, le esecuzioni e la produzione sono di ottimo livello, i suoni e le soluzioni di arrangiamento sono di taglio moderno ma equilibrato e sempre al servizio della canzone e soprattutto del protagonista e del suo vocione, forse raramente valorizzato così tanto su disco.

Quindi, a cosa serve questo ennesimo nuovo disco di un Iggy Pop ben oltre la soglia dei settant’anni? Innanzitutto a goderci una mezz’ora abbondante di buona musica, ben scritta, ben suonata e ben prodotta, senza strafare in nulla e sempre a fuoco. A ricordarci che Iggy Pop non è un vecchio rintronato, ma oggi ancor più di ieri è un artista lucido, ispirato e consapevole. A comprovare che – scusate la ripetizione – che non è necessariamente vero che si nasce incendiari e si muore pompieri. E, infine, a smentire la tentazione di ascoltatori distratti o non particolarmente familiari con il suo catalogo (e magari anche orripilati da certe derive elettroniche degli anni ’80) – quindi gente come chi scrive – che Iggy Pop non merita rispetto e considerazione solo perché è l’idolo di qualche attempato ma giovanile deejay di emittenti nazionali pseudo-rock dalle playlist piuttosto ristrette, o di qualche imbalsamato critico musicale troppo intento a magnificare all’infinito – più o meno consapevolmente – sempre e solo gli eroi di una romantica e lontana gioventù (e, magari, più attratto da fenomeni di costume che non da reali valori estetici)…  No. Iggy Pop merita rispetto, stima e un posto fisso nella storia del rock per meriti esclusivamente artistici, che questo nuovo disco – contro ogni previsione – sintetizza ed espone in maniera esemplare.

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