Beograd
Episodio 7

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Il sesto episodio lo potete leggere a questo link:

Beograd passato remoto

 

I Balcani consumano molta più storia di quanta ne producano” è una famosissima frase di Winston Churchill.

E Tiziano Terzani diceva “I fiumi mi han sempre attirato. Il fascino è forse in quel loro continuo passare rimanendo immutati, in quell’andarsene restando, in quel loro essere una sorta di rappresentazione fisica della storia, che è, in quanto passa. I fiumi sono la Storia.”

A Belgrado la storia transita con l’acqua della Sava. Qui corre la faglia fra Oriente ed Occidente, fra mondo cristiano e Islam, fra cattolici e ortodossi, fra serbi e croati, fra abitanti di Beograd e di Novi Beograd. È la frattura che ha sempre provocato i terremoti. Che ha mandato al macello i soldati degli uni e degli altri. Che ha sollevato onde d’urto in Europa e in Asia.

Non c’è faglia senza ponti, ma i ponti sono i primi a saltare. I serbi li distrussero il 28 luglio del 1914 per fermare gli eserciti dell’Austria-Ungheria. Il 6 aprile del 1941 furono gli aerei del Reich tedesco a fare lo stesso, copiati il 24 marzo del 1991 dalle bombe della Nato.

Gazela, dei tre ponti che collegano Belgrado a Novi Beograd, l’immensa periferia belgradese, è il più vecchio. O meglio il ponte storico che per generazioni ha traghettato auto, pullman, camion, autobus, pedoni da una sponda all’altra della faglia. Non è un semplice ponte. E la vena pulsante della Serbia che da Nis porta alla frontiera con la Croazia, dal sud più profondo al nord già in odore d’Austria Ungheria. È la strada europea E75 che esiste perché esiste quel piccolo tratto di ponte, circa 350 metri, fra Belgrado e l’altra faccia della luna, come chiamano da queste parti Novi Beograd. Se la Sava è il fiume della purezza slava la E75 è la via dell’identità serba. E il ponte Gazela è la pietra “scartata dai costruttori e diventata pietra d’angolo”, come dice Matteo nel suo Vangelo.

Sia che tu arrivi dall’aeroporto oppure dal nord, dall’autostrada il “Gazala most” è il balcone su Belgrado. È la vista che corre sui muri della fortezza di Kalemegdan, sull’ansa del Danubio, sui barconi ancorati, sui tetti di Savamala, sui binari del vecchio scalo ferroviario. È sul riflesso porpora all’ora del tramonto che rimandano nell’acqua del fiume le navate rosse del ponte.

La cartolina ora è cancellata dai palazzoni in ferro e vetro di “Belgrad Waterfront”. Ma non dico nulla perché avevo giurato di parlare solo della Belgrado passato remoto.

O di Novi Beograd, cioè l’altra faccia della luna. L’immensa periferia nord venuta su in pochi anni, dopo la Seconda guerra mondiale, sull’entusiasmo del socialismo, del sol dell’avvenir, della pace e della fratellanza. L’11 aprile del 1948 le brigate di lavoro giovanile diedero il primo colpo di piccone. Quattro anni dopo Novi Beograd era una realtà. L’immenso alveare conta duecentomila e oltre abitanti: 5.500 per chilometro quadrato, contro i 3.430 di tutta la città di Belgrado. Ma si sa il socialismo è sempre per i grandi numeri.

E anche per i grandi ricorsi storici. Così la E75, nel suo tratto urbano assume il nome di Bulevar Arsenija Carnojevica in ricordo del Patriarca serbo Arsenije III Crnojević, colui che riconobbe i serbi come un separtum corpus , una “entità separata” all’interno dell’impero asburgico ponendola sotto l’autorità della chiesa ortodossa serba. L’asfalto ha coperto lo sterrato su cui si affrontavano gli eserciti imperiali austroungarico e ottomano. I palazzi del socialismo anni Cinquanta hanno tolto la visuale delle immense pianure nelle quali si affrontavano gli uni e gli altri. I quartieri sono stati costruito a blocchi numerati. Le fermate degli autobus sono contrassegnate dal numero dei Block. Il Block 70 è quasi interamente abitato da cinesi. Durante la notte tra il 7 e l’8 maggio del 1999, le bombe intelligenti della Nato colpirono l’ambasciata cinese situata nel Block 11a.

Avevamo una mappa obsoleta” si scusò l’allora Bill Clinton senza conoscere, quasi certamente, quello che diceva lo scrittore boemo Reiner Maria Rilke: “l’abitudine di consultare le carte geografiche ha finito per rovinare gli uomini. Ivi, tutto è disteso su di un unico piano, senza rilievi e dislivelli. E quando hanno designato i quattro punti cardinali, credono d’avere assolto ogni obbligo. Ma un paese non è un atlante. Ha monti e abissi.”

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