Il quinto episodio lo potete leggere a questo link:
A Belgrado cercare un orologio pubblico funzionante è una impresa. Forse per questo anche la puntualità è una impresa. Gli appuntamenti sono sempre “verso” o “all’incirca” oppure nella tarda mattinata, a metà pomeriggio, in prima serata. Nell’attesa si cincischia, si perde tempo. Per questo l’orologio che pende all’ingresso della stazione ferroviaria ha sempre avuto, come il meridiano di Greenwich, il pregio dell’infallibilità. Forse perché inserito in un manufatto austroungarico, sotto i numeri latini MDCCCLXXXIV. Si sa neppure gli imperi durano in eterno, per cui il miracolo di un orologio sopravvissuto al potere temporale ha già del soprannaturale. Ovviamente non vi so dire se l’attuale orologio è lo stesso posto in quel lontano anno 1884 quando il primo treno mosse dalla stazione di Belgrado.
Quattro anni dopo, 1888, Belgrado diventa tappa del leggendario Orient Espress. Re, principi, imperatori, capi di stato, quando i governanti d’Europa viaggiavano ancora in treno, una tappa in questa stazione l’hanno fatta di sicuro. Pure io ci sono passato, assieme ad altri milioni di persone. Ovviamente il mio transitare non è entrato nella storia, anche se due fatti meritano di essere raccontati.
L’unica volta che presi un treno dalla stazione di Belgrado fu nell’estate del ’93, forse l’anno peggiore vissuto nei Balcani durante la guerra. Le sanzioni internazionali si facevano sentire pesantemente con molte persone che sopravvivevano solo grazie agli aiuti umanitari. Io andavo a Subotica, centro della Voivodina al confine con l’Ungheria, per un convegno sulla libertà d’informazione. Distanza 200 chilometri, più di 4 ore di viaggio. Vagoni con panche in legno, sovraffollati, vecchi e rumorosi, soste continue anche in aperta campagna. All’arrivo nella cittadina di frontiera trovammo sul binario un capostazione che, con fare marziale (lo ricordo, ma solo nella mia fantasia errante con i baffoni impomatati e gli alamari sulla divisa), indicava a tutti la biglietteria. L’inflazione galoppava così tanto che il prezzo del biglietto in quelle quattro ore era aumentato e noi dovevamo pagare la differenza.
Da quella stazione, in una calda alba del 1948, partì anche uno dei personaggi del mio libro “Una storia silenziosa – gli italiani che scelsero Tito”. Non è un personaggio di fantasia. Ora, che da tempo è morto, posso rivelare il suo nome: Erio Franchi.
Fuggì letteralmente da Belgrado, con moglie e figlio approfittando di un permesso per studio in Italia. Abbandonò tutto, soprattutto l’amore per la Jugoslavia e per la resistenza in cui aveva combattuto. Aveva creduto in un paese diverso, in un socialismo diverso. Poi fu epurato da “La Voce del Popolo” di Fiume e dall’Unione degli Italiani, in quegli anni una cinghia di trasmissione del partito, assieme a un altro italiano: Eros Sequi. Erio ed Eros erano diventati comunisti durante la resistenza. Il primo di una famiglia benestante istriana, il secondo addetto culturale all’ambasciata italiana a Zagabria durante la Seconda guerra mondiale.
Erio Franchi si era presentato convinto alla leva militare, deciso a fare qualcosa di utile per l’Italia. Convinto che tutti dovessero servire la patria nel momento del bisogno. Poi scoprì gli imboscati, I comandanti che lucravano sul magro pasto della truppa, I traffichini di ogni genere. Il suo colonnello che, l’8 settembre, si strappa I gradi e scappa lasciando da soli, in balia dei tedeschi, i propri uomini. Così quel giorno, e nei giorni seguenti, l’Italia monarchica e clericale, l’Italia della “terza sponda”, dei roboanti discorsi del Duce, della Patria e dell’Impero con l’iniziale maiuscola muore nel cuore del giovane Erio. A piedi tornerà fino a Fiume, attraversando mezza Italia e salvandosi solo grazie alla bontà e al coraggio della gente. Arrivato in vista della capitale del Quarnero, appena dopo il transito della divisione nazista Hermann Goering, il giovane avvocato Erio Franchi incontra I primi partigiani. Il 3 maggio del 1945, mitra in spalla e partizanska ben calata in testa, è fra i primi resistenti a entrare nella città di Fiume finalmente libera.
Di Eros Sequi voglio solo ricordare la frase che disse il 9 settembre del 1943, raggiungendo la resistenza clandestina attorno a Zagabria “con I nemici del popolo da ora in poi mi parlerò solo a fucilate”.
Non fu così, o almeno Sequi, pur combattendo nella resistenza ci lasciò uno dei libri più suggestivi, teneri e appassionati su quel periodo “Eravamo in tanti”. L’ho fatto ripubblicare più volte in Italia ma non ha mai avuto il successo che meriterebbe.
Dopo la guerra partigiana, l’epurazione subita in Istria, Sequi continuò a vivere nella Jugoslavia titoista. Divenne Direttore del Dipartimento di italianistica alla facoltà di filologia di Belgrado. Nella biblioteca universitaria c’è oggi un fondo a suo nome, aperto grazie all’impegno del nipote Jacopo, che raccoglie le centinaia di articoli, manoscritti, documenti, poesie che Eros Sequi scrisse nelle due lingue che gli appartenevano, come lui sentiva di appartenere, ed amare, due paesi diversi: l’Italia dell’infanzia e la Jugoslavia della maturità. Nei primi anni Settanta Sequi tenne al Piccolo di Milano una conferenza sulla poesia nella resistenza.
Calliope la musa della poesia. Marte il dio della guerra. Strano binomio. Ma quelle liriche non furono solo la giusta esaltazione di una lotta per la libertà. Seppero anche trovare parole di pietas. Bastino i versi di Franco Fortini, del 1947, intitolati “Quel giovane tedesco” sul nemico che moriva “solo” e “senza lamenti/la fronte sul marciapiede”.
Sono le 21,40 del 20 giugno del 2018. Parte l’ultimo treno diretto a Budapest. Nella stazione cala il silenzio e l’oscurità. Il traffico ferroviario si è trasferito nel nuovo terminal in zona Prokop. Ferro e vetro, grandi marciapiedi e mega schermi.
Il vecchio scalo, mummificato nel restauro conservativo, diverrà forse un museo. Destino comune ai luoghi a cui si toglie la quotidianità: la polvere sollevata dal passare delle persone, l’acre odore del sudore umano, la parola sussurrata, l’urlo sguaiato, lo schiamazzo cafone, un saluto rapido, magari con gli occhi umidi di pianto. Resta, come in un cimitero, la lapide posta sulla reliquia a ricordare cosa fu.
Che sarà della piazza? Il nome non lo ricordo. È così per tutte le piazze delle stazioni, in tutto il mondo. Chi si ricorda che a Milano lo slargo davanti alla Centrale è intitolato al Duca d’Aosta. E a Roma davanti a Termini si chiama dei Cinquecento?
Luoghi che introducono al viaggio. I posteggi dei taxi, le fermate dei mezzi pubblici, i baracchini che vendono bibite e panini, le edicole con le mappe della città. La stazione ferroviaria di Belgrado confinava con il terminal degli autobus che è ancora funzionante perché sarà difficile in pochi anni dotare il paese di una rete ferroviaria estesa ed adeguata. Così tutti preferiscono bus di linea, veloci, sicuri, riscaldati o ventilati secondo la stagione. Anche gli habitué della piazza: venditori ambulanti, mendicanti, zingari, borseggiatori.
Ma prima di spostarsi in altro luogo farei un torto a tutti voi se non segnalassi il chiosco dentro ai giardinetti fra stazione e terminal dove mangiare hamburger grandi come cotolette di elefante, conditi con cipolla, insalata verde, salsa di peperoni. Sbrigatevi prima che sparisca. Uno che compra un attico in un palazzo di vetro, o anche un appartamento meno pretenzioso ma pur sempre elegante come a Dubai, seppur sei a Belgrado, un appartamento con vista panoramica, terrazzo coibentato, aria condizionata non può certo accettare che dalla strada salga odore di carne arrostita e magari anche speziata.
Ma via basta polemiche. Noi ci gustiamo l’hamburger aromatizzato tornando verso la piazza della stazione antica, quella diventata museo. Giunti qui ci prendiamo un autobus cittadino per passare il confine della storia.