Beograd – passato remoto
Episodio 3

fermata autobus a belgrado con autobus rosso e persone che camminano
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«Tempi duri, ora anche di guerra» ripeteva spesso Filip David. E proprio durante la guerra, quella scatenata dalla Serbia ma combattuta fuori dalla Serbia, ho conosciuto questa parte di Belgrado. Cercavo un albergo, ovvero cercavo l’albergo dei giornalisti per restare vicino alla mia categoria. Il richiamo del branco, pure se a volte ho preferito fare il lupo solitario. Ma non a Belgrado dove per vivere devi immergerti, contaminarti, scontrarti, forse anche adeguarti.

Allora esisteva solo un luogo che racchiudesse in sé questi pregi o difetti. Queste caratteristiche, queste assonanze e dissonanze. Lo Slavija hotel in piazza Slavija.

Dell’hotel ricordo bene un pianista insofferente alle note basse, due guardarobiere in là con gli anni intente in qualsiasi momento della giornata a limarsi le unghie, trafficanti di ogni genere, piccoli e grandi criminali, politici corrotti o in cerca di corruzione, giornalisti pagati dai servizi e portieri paraculi che strizzavano l’occhio a tutti i clienti maschi.

Il parallelepipedo alto non so quanti piani attirava a sé la città come un meteorite. La grande vetrata del bar del primo piano garantiva una visione a 180 gradi. Ma anche chi guardava da fuori aveva la stessa smisurata angolatura. Allo Slavija caffè si andava per vedere e per farsi vedere. I secondi erano più dei primi e occupavano la fila avanti come fossero palchi d’onore al teatro dell’Operà.

Il direttore del bar, che ai tempi in cui frequentavo lo Slavija, era anche direttore dell’albergo e del ristorante, in un impressionate turbinio di straordinari, era un uomo sulla cinquantina che vestiva nel modo desolante dei funzionari di partito. Aveva l’abitudine di rivolgersi in francese ai clienti stranieri, quasi a dire che l’eleganza arrivava unicamente dalla “ville lumiere”.

D’un colpo, siamo già nel terzo millennio, via il bar, via la vetrata. Una insegna da casinò di periferia, “Havana”, e dentro slot machine a non finire, qualche roulette. Un tavolo di carte a metà fra un chemin de fair e una tombolata di paese. Ingresso vietato ai minori seppur i minori lo riempiano dalla mattina alla sera intruppati nelle felpe di qualche rap balcanico. Ho seguito smarrito l’evolversi del monumento al socialismo reale che lo Slavija rappresentava. L’ho seguito col cuore in gola, sentendo ogni mutazione una ferita profonda nel tessuto umano.

Ho visto il legno delle porte delle stanze sgretolarsi poco alla volta. I sanitari ingiallire, le finestre uscire dai cardini. Le tende pendere mestamente come vessilli in battaglia ammainati dopo la sconfitta.  Le passatoie inerire come asfalto sconnesso. I pomelli delle scale staccarsi, gli ascensori andare perennemente fuori uso, il disinfettante alla candeggina bruciare gli occhi come gas lacrimogeno. Le posate spaiate nel ristorante ove le tovaglie di lino riportavano rammendi a più non posso. Gli ingressi girevoli che funzionavano solo se spinti dai clienti. Ammassi di valige abbandonati nell’atrio per la disattenzione dei facchini.  Ma era lo Slavija, come a Praga era l’Alcron, a Varsavia il Forum, a Mostar l’Ero. Gli alberghi della guerra fredda.

 

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