Il primo episodio lo potete leggere a questo link:
“La storia dell’uomo non presenta altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà a un altro, poi all’eccesso di civiltà, e finalmente alla barbarie, e poi da capo”: scriveva Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone. Chissà se Leopardi conosceva la storia di San Sava, fondatore della chiesa ortodossa serba, della legge ecclesiastica e della letteratura nazionale, spesso paragonato a Buddha, vissuto attorno al XIII° secolo ma anche fine diplomatico, sempre in bilico fra fede e politica, i cui resti ebbero tanti passaggi: inumato a Turnovo in Bulgaria, le ossa in seguito spostate nel monastero di Miliseva e, 360 anni dopo la sua morte, bruciate dai turchi nella piazza centrale di Belgrado. Nella stessa piazza ove sorge ora il tempio ortodosso con il suo nome, forse il più grande al mondo.
La donna che vendeva le candele all’interno del tempio era di una magrezza impressionante. Mi sembrò fragile come un origami ma sbagliai. Mi fece notare che le candele ortodosse sono più lunghe e più strette di quelle delle chiese cattoliche. E poi, mai e poi mai, avrebbe permesso che in San Sava si mettessero ceri e lumini elettronici. “La fede non può essere eterna. Devi in continuazione alimentarla. E deve bruciare davvero, farti male nel corpo e nell’anima”: lo disse con un filo di voce che sembrava arrivare davvero dall’al di là. Io, che sono sprezzante con la fede e i suoi seguaci baciapile, presi in silenzio il moccolo bianco con l’immagine di San Sava e dopo averlo acceso lo infilai nell’apposita grata porta candele. Era la primavera del 2015. La mia interprete di allora era una regista teatrale che aveva studiato a Brera. Si chiamava Isidora. Parlava l’italiano del nord Italia, zeppo di imperfetti e di subordinate. Le O e le U erano chiuse come a Milano.
Il quartiere di Vračar è uno dei cuori antichi della città. E il cuore del quartiere è un ammasso di rovine in Kosančićev Venac, dove sorgeva la vecchia Biblioteca nazionale bombardata dai tedeschi nel 1941, durante l’operazione “Castigo” guidata dal generale Alexander Löhr . Fermatevi un attimo di fronte a quelle rovine che bruciarono per tre giorni e ora sono recintate da un muro sbrecciato e un cancello arrugginito e fuori dai cardini. Con loro è andato in fiamme un patrimonio immenso di testi e cultura. Forse sforzandovi potreste ancora sentirne l’odore e vedere piccole farfalle nere, levarsi verso l’alto. Resti di libri che si sparsero per tutta la città. I libri e le biblioteche sono pericolosamente sovversivi perché raccontano storie ibride, storie che mettono in discussione le certezze singole e collettive. Ce lo ha rammentato anche la distruzione della biblioteca di Sarajevo. Allora guerra ai libri e ai luoghi che li conservano. Forse non se ne esce costruendo le biblioteche di domani ma ricordando quelle di ieri.
Quando nel 1973 fu inaugurata, all’interno del parco di Karađorđe, la nuova sede della biblioteca nazionale serba uno dei primi visitatori fu Willy Brandt. Il cancelliere tedesco, non nuovo ad atti clamorosi di riconciliazione, portò in dono una scatola piena di testi antichi.
Dopo San Sava, dopo l’excursus sui libri e le biblioteche giù veloci ancora una volta verso piazza Slavija attraversando un quartiere medio borghese. Bourgeois direbbero i francesi. Villette pannoniche, case austroungariche, fregi liberty, cortili curati e terrazze panoramiche. Tetti alla turca e logge neoclassiche. Nuovi condomini per le classi emergenti e dimore di lusso nascoste da imponenti cancelli e alberi secolari. Salici, edere, pini.
Vračar è la zona dove una crème di intellettuali, di architetti, di scienziati hanno trovato casa fra l’ottocento e il novecento. Lo stile accademico neorinascimentale per il palazzo dell’Arcidiocesi di Belgrado; quello modernista per la dimora dell’architetto Milan Zloković; quello serbo bizantino per la residenza del colonnello Elezović con sottotetti, lesene, bassorilievi. Che dire della scelta art nouveau che volle il sacerdote Mihailo Popović per il suo alloggio in via Kursulina 35? Ma sono anche gli anni degli artisti secessionisti. Giovani che cercano di sottrarsi all’Accademia, all’arte paludata, agli affreschi e alle statue neoclassiche.
Così fu una chiesa la pietra dello scandalo: la chiesa cattolica di Sant’Antonio da Padova. Autore Jože Plečnik, architetto sloveno. Forma tonda e campanile pendente per il santo nato a Lisbona e morto, appunto, nel capoluogo veneto.
Ma la chiesa è ubicata a Crveni krst, un po’ più ad est. Ormai fuori Vračar. E noi invece stavamo scendendo velocemente verso piazza Slavija. Velocemente perchè a Belgrado i ritmi sono diversi secondo le zone.
I boulevard sono detti anche viali a scorrimento veloce, ovunque nel mondo. Pure nei Balcani. Pure nella patria del socialismo titino, la versione eretica e terzomondista dell’utopia marxiana. Ma questa visione può interessare al massimo qualche intellettuale ormai «fuori servizio» attivo. Mentre la disquisizione sulla velocità è a la page, come se Tommaso Marinetti si fosse trasferito armi e bagagli nel terzo millennio. Già Marinetti e gli undici baci sulla bocca alla Principessa Rosa di Belgrado: «Come descrivere le sue labbra? Forse con un campionario di lussurie orientali.»
Ma è la terza volta che lo dico, e ora lo faccio davvero. Torno al nostro itinerario che ci deve riportare in Slavija Square. E lascio le strade a grande scorrimento per una strada solo apparentemente secondaria. Una strada che taglia Belgrado come una lama affilata, da San Sava a Slavija. Forse per farsi perdonare la ferita l’hanno piantumata sui due lati con numerosi platani, mentre un senso unico indirizza le auto verso il centro. Non so che valore abbia per la città ma conosco cosa ha rappresentato per me: la via di fuga dai gas di scarico, dai clacson feroci, dai filobus impazziti delle vie attorno. E soprattutto un bar che cambiava spesso gestori situato fra il garage di un albergo e un negozio di abbigliamento. Incorniciato nella facciata di un palazzo color rosa confetto. In quel bar ho conosciuta mezza Belgrado: intellettuali, giornalisti, politici, scrittori, attori, qualche giocatore d’azzardo e qualche millantatore, uomini dei servizi che tali non erano ma vivevano facendolo credere. Un caffè che potevo considerare un informale ufficio di rappresentanza. Riprova che, nei Balcani, i risultati migliori si ottengono fra un «coffee e una pivo».
Ah, certo, non solo nei Balcani!
Solo in quel bar comunque avrei potuto incontrare Filip David, il grande e umile scrittore di Kragujevac, autore di testi di eccezionale valore a cui l’Italia, purtroppo, non ha ancora riservato la giusta attenzione. Il suo inseparabile cappellino da minatore inglese, la sua camicia scozzese, il suo giubbino da reporter di guerra. La sua eleganza e modestia nel raccontare in parole semplici a un pubblico in formato ridotto fatto da me e qualche altro amico piani diversi di narrazione, ove passato, presente futuro trasmigrano in continuazione rivoluzionando il nostro baricentro. Come a negare il qui, ora e subito per un più tranquillizzante prima e dopo. In quegli informali cenacoli si perdeva il conto dei caffè, delle birre, pure delle pelinkovac, l’amaro a base di assenzio. Un giorno ne vidi una pubblicità. Copriva un palazzo in restauro sulla Kralja Milana, se ricordo bene. Diceva: «l’amaro del Maresciallo Tito e dell’eretico Ðilas». Dopo Andy Warhol tempi duri anche per i miti.